La realizzazione di una Hard Brexit diventa ogni giorno più probabile. Ad affermarlo è Michel Barnier, ovvero il capo negoziatore per l’Unione Europea nella delicata questione che vede l’uscita del Regno Unito al centro del dibattito pubblico. Le ipotesi iniziali più remote, ovvero il mancato accordo e la conseguente uscita disordinata dall’UE, sembrano purtroppo acquistare ogni giorno che passa più consistenza man mano che ci si avvicina la scadenza del 12 aprile 2019.
Nel caso non si riuscirà a trovare la quadra entro quel giorno, la Gran Bretagna e l’Unione Europea saranno infatti costrette a dare seguito al referendum agendo unilateralmente, e quindi senza un’intesa politica in grado di attenuare le inevitabili conseguenze della procedura tanto dal punto di vista organizzativo quanto economico.
Caso Brexit: le opzioni ancora sul tavolo e le possibili conseguenze di un ‘no deal’
Stante la situazione appena descritta, al momento le opzioni ancora disponibili sul tavolo delle trattative sono tre. La prima prevede l’avvio di nuove elezioni in Gran Bretagna, una possibilità che farebbe slittare automaticamente anche la data della Brexit. Una seconda opzione potrebbe contemplare un nuovo referendum in merito alla vicenda, per valutare se nel frattempo le opinioni dei cittadini britannici sono cambiate. Infine, l’ultima opzione disponibile resta quella di un ‘no deal’ e quindi di una inevitabile Hard Brexit.
Inutile evidenziare che proprio quest’ultima ipotesi crea le maggiori apprensioni. Per il già citato Barnier, si tratterebbe di un’eventualità alla quale i Paesi dell’Unione Europea sono preparati, ma questo “non significa che non ci saranno disagi”. In tal senso, è già dato per scontato che “non tutto andrà liscio” e che “ci saranno problemi”.
D’altra parte, gli scenari peggiori sembrano potersi concretizzare proprio per il Paese uscente, tanto che c’è chi descrive addirittura all’interno dello stesso Governo inglese un’evoluzione “apocalittica” per i primi mesi. Tradotto in senso pratico: aumento dei prezzi alimentari del 10%, forze di sicurezza pubblica in allerta, aziende in difficoltà (quanto meno quelle che ancora non sono scappate), e scorte di beni primari in esaurimento. Quanto basta per far entrare l’economia locale in recessione e per far crollare la sterlina come nell’ormai lontana crisi economica mondiale del 2008.