Le Ong cominciano a gettare la maschera. L’avevano già fatto con la Sea Watch, che aveva violato i confini italiani e, adesso, l’ha fatto anche la Mediterranea che, dopo aver raccolto 54 migranti davanti alle coste libiche, ha esultato non per aver salvato delle persone che stavano affogando in mare, quanto piuttosto per “averli strappati all’inferno della Libia”.
Questa frase può sembrare irrilevante, ma non lo è. In Italia, infatti, esiste un reato chiamato “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina” che prevede una pena da 1 a 5 anni di carcere per chiunque “promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato”.
Le Ong si appellano al diritto del mare e alle convenzioni internazionali che disciplinano l’obbligo di soccorrere i naufraghi in mare. È vero. Ma le norme internazionali non dicono che si possono “strappare migranti” da un altro Paese. Questo non è salvare: è trasportare illegalmente delle persone da una nazione all’altra con conseguente reato di immigrazione clandestina.
La differenza tra “salvare” e “strappare” c’è ed è abissale. Le dinamiche delle operazioni di salvataggio delle Ong fanno trapelare una verità ormai comprovata: le navi umanitarie non vagano nel Mediterraneo con lo scopo di aiutare chi sta naufragando, ma si avvicinano appositamente alla Libia con l’obiettivo di caricare i profughi prima che lo faccia la guardia costiera di Tripoli.
È una sorta gara tra chi arriva prima sul carico di “merce umana” da riportare o in Libia o da scaricare in Italia. Le dichiarazioni pubbliche espresse da esponenti della nave Mediterranea suggeriscono che le Ong spingano per anticipare Tripoli e fare in modo che i migranti sfuggano a quel Paese per essere poi trasportati illegalmente in Italia con le buone o – come ha dimostrato la Sea Watch – con le cattive.