Il direttore di Libero Quotidiano, Vittorio Feltri, si è dimesso dall’Ordine dei Giornalisti. Non ha semplicemente abbandonato la direzione del giornale che ha fondato nel 2000: ha deciso di abbandonare definitivamente la professione giornalistica dopo 50 anni di onorata carriera, scandita da numerosi successi, ma anche da infinite critiche che ha sollevato ogni volta che pubblicava un articolo.
Ultimamente, per esempio, era finito nell’occhio del ciclone per aver definito i meridionali una “razza inferiore”. Anche in questo caso si era beccato una valanga di critiche da parte di chi lo aveva accusato di razzismo. Poco importa se lui si era giustificando dicendo che si riferiva all’inferiorità economica e non culturale: il polverone si era ormai alzato, così come la denuncia del senatore Sandro Ruotolo.
La scelta di dare le dimissioni non cambierà il lavoro di Feltri, che continuerà a fare il direttore editoriale. Un’attività che può fare chiunque, non necessariamente un giornalista, ma anche un politico, uno scienziato, uno scrittore, un avvocato. “Mi sono stancato, mi massacrano, mi stufano, mi fanno perdere tempo e devo pagare gli avvocati. Ma andassero a quel paese…non ce la faccio più, basta, fine, non cambierò idea, non torno indietro”, dice avvilito Feltri.
Il fondatore di Libero ha quindi gettato la spugna. Non ne può più di sanzioni disciplinari e processi subiti. La scelta di Feltri è stata condivisa anche dal direttore de Il Giornale, Alessandro Sallusti, che ha scritto: “Immagino che sia una scelta dolorosa per sottrarsi una volta per tutte all’accanimento con cui da anni l’Ordine dei giornalisti cerca di imbavagliarlo e limitarne la libertà di pensiero a colpi di processi disciplinari per presunti reati di opinione e continue minacce di sospensione e radiazione”.
Reati di opinione: ecco la deriva a cui, secondo Feltri, sta andando incontro il nostro Paese. Un Paese che processa un giornalista anche per dei titoli che non vanno a genio alla Corporazione mediatica. E, a essere onesti, nemmeno alla Corporazione politica.