Vivere e morire a Milano con il Covid-19. La storia di Chiara

Chiara Giordana racconta in una lettera a "Milano in Movimento" la storia dei sui genitori contagiati dal virus. Il padre morto in ospedale in 5 giorni e i disperati tentativi di farlo ricoverare. La madre, operatrice in una RSD, che riceve il tampone dopo un mese.

Vivere e morire a Milano con il Covid-19. La storia di Chiara

La mamma di Chiara è un’operatrice socio-sanitaria in una RSD di Milano: le Residenze Sanitarie per Disabili sono strutture a carattere socio-sanitario e socio-assistenziale, destinate a persone con disabilità che risultano prive del necessario supporto familiare, o per le quali la permanenza nel proprio nucleo familiare sia valutata non più possibile. La più nota nella metropoli, per fare un esempio, è la “Don Gnocchi”.

Il 20 Marzo, la mamma di Chiara ha la febbre, a 37.5°. Fortunatamente è il giorno di riposo e contatta la guardia medica che inspiegabilmente la invita a recarsi nel loro ambulatorio, in piena emergenza Covid-19, ignorando le disposizioni del governo per il contenimento del virus. Le danno solo due giorni di malattia, consigliandole di sentire in seguito il suo medico di famiglia, il quale telefonicamente cura la patologia con tachipirina e riposo. 

La mamma di Chiara non vive sola: suo marito ha 75 anni, in salute ma reduce da una brutta polmonite contratta due anni fa. Il medico di base, conoscendo la situazione, consiglia ai coniugi un isolamento e l’attuazione di una sorta di distanziamento sociale domiciliare: dormono in stanze diverse, cercano di stare sempre con le mascherine, tengono gli asciugami in due punti diversi del bagno e lavano tutto in lavastoviglie. Purtroppo tutto questo non basta, ed il padre di Chiara inizia ad avere la febbre il 28 marzo. Lo racconta al telefono alla figlia, in lacrime e spaventata, che viene consolata. In fin dei conti, la moglie se la sta cavando, con lievi disturbi: andrà bene anche a lui.

Invece, il giorno dopo, le condizioni dell’uomo si aggravano: ha 39 di febbre ed è l’inizio di un calvario. Durante la prima chiamata al 112 viene sottoposto ad uno screening telefonico, gli fanno trattenere il respiro per 10 secondi e non valutano la situazione urgente. Successivamente la domanda è sempre la solita: “Il signore ha problemi respiratori?“. No, ma il signore continua ad avere la febbre altissima e non ha più voce. Ad un certo punto, i parenti di Chiara, che vivono a Roma, acquistano e spediscono un saturimetro. Hanno letto che, al di là dei problemi respiratori, con questo virus è necessario tenere sotto controllo la saturazione di ossigeno nel sangue, cosa sottovalutata dagli operatori di pronto intervento. Ennesima chiamata al 112 per interpretare i valori del saturimetro.

Questa volta viene inviata un’ambulanza e deciso il ricovero d’urgenza. Ci vogliono ore per metterlo su un’ambulanza, perché sulle scale del palazzo dove vive la coppia sono state lasciate le impalcature per la costruzione dell’ascensore e da lì la barella non riesce a passare. L’uomo viene così calato dal balcone con una complicata operazione da parte dei Vigili del Fuoco: “…Prima di andare via mio padre chiede a mia mamma di mettergli le scarpe in un sacchetto perché lui ci credeva che sarebbe tornato a casa sulle sue gambe. Insieme alle scarpe si porta dietro i vari documenti e il cellulare, che mai utilizzerà per contattarci”, scrive Chiara Giordana nella sua lettera a “Milano in Movimento”, raccontando la storia dei genitori.

Dopo solo cinque giorni di ricovero il padre di Chiara muore. La figlia scopre che, malgrado la polmonite pregressa, non è mai stato sottoposto a terapia intensiva, solo ossigenazione tramite casco, ed è tormentata dai sensi di colpa. Per aver detto la verità agli operatori del 112: forse, se avesse mentito a proposito dei problemi respiratori dell’uomo, lo avrebbero ricoverato prima. Forse si sarebbe salvato. Ma c’è anche tanta rabbia e delusione in questa lettera. La rabbia di una famiglia lasciata sola a combattere un nemico silenzioso ed implacabile.

Nel frattempo la madre, che non ha potuto nemmeno riabbracciare a causa del lockdown, riesce ad ottenere il tampone, grazie alle insistenze del direttore sanitario della RSD in cui lavora. Sono passati 33 giorni: dicono che mancavano i reagenti.

Chiara è anche delusa dalla mancanza di umanità e solidarietà intorno alla mamma nel suo condominio: “… Si crea una rete di indifferenza e di isolamento per paura del contagio. Viene trattata come un’appestata…anche il semplice gesto di buttare la spazzatura (con guanti e mascherina ffp2) suscita polemiche e nonostante non sia contro le direttive di ATS, a mia madre viene impedito di farlo…”. Ora, nella Fase Due, Chiara e la mamma potranno finalmente riabbracciarsi nel ricordo di un marito e di un padre, che voleva tornare a casa. 

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