La nuova inchiesta che coinvolge decine di lavoratori tra Napoli e Caserta porta alla luce un meccanismo di sfruttamento radicato, capace di sopravvivere persino ai controlli delle autorità. Un quadro che racconta turni interminabili, compensi irregolari e una gestione quotidiana fondata su pressioni costanti, creando un ambiente dove la dignità della manodopera sembrava essere stata completamente annullata.
Le indagini coordinate dalla procura di Napoli Nord hanno portato all’arresto di un imprenditore agricolo, della moglie e di un cittadino indiano, più un obbligo di firma per un altro lavoratore, delineando una rete organizzata che operava come un ingranaggio unico e fluido. Secondo gli atti, la giornata dei braccianti iniziava prima dell’alba, quando venivano prelevati a Villa Literno e trasportati sui campi a bordo di furgoni privi dei requisiti minimi di sicurezza.
Una volta arrivati nelle aree di lavoro, li attendevano 14 o 15 ore complessive, di cui almeno 11 o 12 effettive, senza protezioni e spesso esposti a residui di sostanze usate nelle coltivazioni. Le pause si riducevano a pochi minuti e la retribuzione, fissa o legata alle cassette riempite, non superava i 40 o 50 euro al giorno. Calcolata su base oraria, scendeva a circa 2,70 euro, un valore lontanissimo da quanto stabilito dal contratto agricolo.
Le descrizioni raccolte dagli inquirenti rivelano un clima teso e autoritario. I lavoratori venivano rimproverati in modo costante, con pressioni verbali che li spingevano a non fermarsi mai. Chi non riusciva a sostenere il ritmo rischiava di perdere non solo la paga, ma anche il posto per il giorno successivo. In questo contesto, anche un semplice bisogno personale diventava motivo di difficoltà.
Emblematico il caso di un bracciante che dovette quasi “giustificare” un permesso per accompagnare il figlio a una visita specialistica, rinunciando anche alla retribuzione pur di non compromettere la possibilità di continuare a lavorare. La struttura emersa dalle indagini era suddivisa tra vertice e gestione operativa.
L’imprenditore e la moglie avrebbero coordinato l’organizzazione generale, mentre due caporali indiani curavano il reclutamento, la suddivisione della manodopera, la sorveglianza sul campo e la gestione delle paghe. Uno di loro, secondo gli investigatori, tratteneva persino una quota aggiuntiva dagli stipendi dei connazionali, accumulando nel tempo decine di migliaia di euro. Per la gip, il modello era talmente radicato da continuare anche dopo i controlli del 2024. Per questo è stato disposto il sequestro di beni e mezzi, considerati il frutto del risparmio ottenuto riducendo i compensi e ignorando i contributi dovuti dalla legge.