77 giuriste firmano per dire ‘no’ al reato di femminicidio

Giorgia Meloni ha rilanciato l’impegno del governo contro i reati di genere, proponendo un disegno di legge che introduca il reato autonomo di femminicidio, punito con l’ergastolo. Tuttavia, la proposta ha suscitato critiche da parte di 77 penaliste e docenti.

77 giuriste firmano per dire ‘no’ al reato di femminicidio

Due disgrazie recenti, quelle di Fernanda Di Nuzzo, deceduta per mano del marito a Torino, e di Martina Carbonaro, deceduta a soli 14 anni ad Afragola, hanno riportato al centro del dibattito pubblico il tema del femminicidio in Italia. Eventi che, ancora una volta, hanno spinto la premier Giorgia Meloni a intervenire pubblicamente, esprimendo vicinanza alle famiglie e la volontà di rafforzare l’azione dello Stato contro i reati di genere.

Ma la proposta del governo, che mira a introdurre nel codice penale italiano il reato autonomo di femminicidio, punito con l’ergastolo, sta dividendo l’opinione pubblica e il mondo giuridico.

Il disegno di legge sostenuto da Meloni intende riconoscere esplicitamente la specificità del femminicidio come reato aggravato da motivazioni di genere, e punirlo con la massima pena prevista: l’ergastolo. Un’iniziativa che, nelle intenzioni del governo, ha un forte valore simbolico.

Meloni ha affermato che “la scomparsa di Martina ci impone di guardare in faccia un male profondo“, e che la politica ha il dovere di rispondere “con la massima severità“.

A frenare l’entusiasmo attorno alla proposta, però, è arrivata la voce critica di 77 penaliste, docenti universitarie e giuriste che hanno firmato un appello pubblicato sulla rivista giuridica Giustizia Insieme. Le firmatarie mettono in guardia dal rischio di approvare leggi dettate più dal bisogno di consenso che dall’efficacia reale.

Secondo loro, la legislazione italiana già oggi permette l’ergastolo per i femminicidi, come dimostrato dal recente caso di Filippo Turetta, condannato per il caso di Giulia Cecchettin. Dunque, l’introduzione di un reato ad hoc sarebbe solo un atto “promozionale” e “populista”, che rischia di oscurare la necessità di interventi più strutturali e preventivi.

Il punto centrale dell’appello delle penaliste è che il reato di genere non si risolve solo con l’inasprimento delle pene, ma con un cambiamento profondo della cultura e delle strutture sociali. Il reato nasce in un contesto che vede spesso la donna subordinata, svalutata: nei media, nella famiglia, nel lavoro, nella scuola. Un contesto che prepara il terreno alla sopraffazione e all’abuso, e che non può essere sanato solo a colpi di codice penale.

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