Era il febbraio del 2017 quando un operaio della ex Sevel-Fca di Atessa, oggi Stellantis, fu protagonista di un grave episodio che ha scosso il mondo del lavoro: durante il turno, gli fu negata la possibilità di andare in bagno. Costretto a trattenersi oltre ogni limite fisiologico, l’uomo finì per urinarsi addosso. Ma l’umiliazione non si fermò lì: non gli venne nemmeno consentito di cambiarsi. Un trattamento che, secondo i giudici, ha rappresentato una chiara violazione dei diritti fondamentali della persona e dei principi basilari di tutela della dignità umana nei luoghi di lavoro.
A distanza di oltre otto anni da quell’accaduto, la Corte di Cassazione ha posto la parola fine alla vicenda giudiziaria, dichiarando inammissibile il ricorso presentato da Stellantis contro la sentenza della Corte d’Appello dell’Aquila, che aveva confermato la decisione del Tribunale di Lanciano. Le motivazioni sono inequivocabili: l’operaio ha subito una “lesione della dignità personale verificatasi sul luogo di lavoro”, in violazione dell’articolo 2087 del codice civile, che impone al datore di lavoro l’obbligo di adottare tutte le misure necessarie a garantire l’integrità fisica e morale dei dipendenti.
La Suprema Corte ha inoltre condannato l’azienda automobilistica al pagamento delle spese legali e ha ordinato l’anonimizzazione dei dati del lavoratore in caso di eventuale diffusione dell’ordinanza, in conformità con le disposizioni del decreto legislativo 196/2003 in materia di tutela della privacy. All’epoca dei fatti, l’episodio suscitò forte indignazione nell’opinione pubblica e nelle rappresentanze sindacali. L’Unione Sindacale di Base (USB) proclamò immediatamente uno sciopero in segno di protesta e offrì pieno supporto legale e umano al lavoratore, sostenendolo durante l’intero percorso giudiziario.
Oggi, dopo la pronuncia definitiva della Cassazione, il sindacato parla di “una sentenza che restituisce giustizia e dignità a un lavoratore che ha avuto il coraggio di non tacere, di denunciare un abuso inaccettabile e di battersi per evitare che altri subiscano lo stesso trattamento”. Nel comunicato diffuso nelle scorse ore, USB ha ricordato anche una battaglia parallela: quella condotta da Fabio Cocco, all’epoca coordinatore regionale di USB Lavoro Privato, anch’egli coinvolto nella vicenda per aver difeso pubblicamente il dipendente. Cocco e il lavoratore furono denunciati per diffamazione, ma la loro posizione fu definitivamente archiviata nel 2020 dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Lanciano, che non ravvisò alcun reato. “Dedichiamo questa vittoria alla memoria di Fabio Cocco si legge nella nota del sindacato che fu tra i primi a denunciare l’accaduto e a mettersi al fianco del lavoratore, con coraggio e determinazione.
Un ringraziamento speciale va anche all’avvocato Diego Bracciale, del foro di Chieti, per l’alta professionalità dimostrata nel condurre una battaglia legale lunga e complessa, culminata in un risultato che riafferma il valore della giustizia e del rispetto per la persona umana”. La sentenza della Cassazione assume oggi un valore simbolico potente, non solo per il lavoratore coinvolto, ma per tutti coloro che quotidianamente affrontano situazioni di abuso o umiliazione sul posto di lavoro. È un richiamo fermo al rispetto dei diritti fondamentali e un monito alle aziende: la produttività non può mai giustificare la disumanizzazione.