PENNE (PE) – Un insospettabile vigile del fuoco, un ex carabiniere e un muratore sarebbero stati al centro di un giro di spaccio di sostanze stupefacenti, gestito in maniera sistematica e continuativa. È quanto emerge dall’inchiesta che ha portato il pubblico ministero Andrea Papalia a firmare la richiesta di rinvio a giudizio per Gaetano Zenone, 51 anni, vigile del fuoco in servizio alla caserma di Penne all’epoca dei fatti, suo cugino Antonio Marino, ex appartenente all’arma, e Valentino Longaretti, 37enne muratore. Per loro, le accuse sono detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti, mentre Zenone dovrà rispondere anche di estorsione. Coinvolto nell’inchiesta anche Claudio Costantini, accusato di favoreggiamento.
L’inchiesta “Acque agitate” e la rete dello spaccio
L’operazione condotta dai carabinieri di Penne, che ha toccato anche le zone di Farindola e Montebello di Bertona, è stata ribattezzata “Acque agitate”, un nome che richiama il clima di tensione vissuto nella comunità vestina durante i blitz effettuati nel corso delle indagini. Gli inquirenti hanno ricostruito una ventina di episodi di spaccio, delineando il ruolo di Zenone come figura chiave nella rete di distribuzione di sostanze stupefacenti. Secondo le intercettazioni e le testimonianze raccolte, il vigile del fuoco sarebbe stato un vero e proprio punto di riferimento per i consumatori della zona. “Un uomo dedito in modo sistematico e continuativo allo spaccio di sostanze stupefacenti, tanto da costituire un punto di riferimento per numerosi assuntori di Farindola, Montebello e Penne”, hanno sottolineato gli investigatori.
Il metodo Zenone: spaccio mascherato da attività agricola
L’attività investigativa, durata oltre sei mesi, ha fatto emergere una ricostruzione dettagliata dei traffici illeciti attraverso pedinamenti, controlli, fotografie, riprese, servizi di osservazione e intercettazioni telefoniche e ambientali. Da queste prove sarebbe emerso che Zenone, oltre al suo ruolo nei vigili del fuoco, era anche imprenditore agricolo nell’azienda di famiglia, molto nota nel territorio. Proprio questa copertura sarebbe stata utilizzata per celare le attività di spaccio: al telefono, infatti, i clienti non chiedevano direttamente le sostanze stupefacenti, ma utilizzavano un codice legato ai prodotti agricoli. Termini come “fave” e “pomodori” sarebbero stati utilizzati per riferirsi in realtà a dosi di sostanze stupefacenti.
Il supertestimone e la strategia per eludere i controlli
Come spesso accade in inchieste di questo tipo, è emersa anche la figura di un supertestimone, che avrebbe rivelato dettagli chiave sulle attività illecite di Zenone. Quest’ultimo, consapevole di essere sotto controllo, avrebbe modificato il proprio modus operandi, evitando di acquistare grandi quantitativi di sostanze stupefacenti per far credere di essere solo un consumatore. Tuttavia, secondo le indagini, fino a poco tempo prima comprava un chilo di cocaina per volta, pagandolo anche 40mila euro in contanti, e rifornendo clienti abituali da circa dieci anni. Non solo: il testimone avrebbe raccontato anche di pressioni e tentativi di depistaggio, sostenendo che Zenone lo avrebbe esortato a negare tutto di fronte ai carabinieri, cercando di ostacolare le indagini.
Le intercettazioni e il mercato di sostanze stupefacenti
Le prove più schiaccianti arrivano dalle intercettazioni ambientali, tra cui alcune registrate nell’auto di Zenone. In un dialogo con Longaretti, si parlerebbe apertamente della difficoltà di reperire le sostanze stupefacenti di buona qualità e delle migliori piazze di rifornimento: Roma, Ancona e Milano. Una frase in particolare, pronunciata dallo stesso Zenone, confermerebbe il suo coinvolgimento attivo nello spaccio: “Portamene dieci, così che ci faccio non mi piace. Ma così non si può fare, io una mezza chilata la devo prendere”.
Il giudice: “Spaccio sistematico anche in servizio”
Le parole del giudice per le indagini preliminari (GIP) nella misura cautelare descrivono un quadro inquietante: Zenone, pur appartenendo ai vigili del fuoco, avrebbe svolto un’attività di spaccio reiterata e sistematica, operando nelle stesse zone in cui esercitava le sue funzioni istituzionali e, in alcuni casi, persino durante l’orario di servizio. Ora la parola passa al giudice per l’udienza preliminare (GUP), che dovrà decidere se accogliere la richiesta di rinvio a giudizio e mandare a processo gli indagati. L’inchiesta prosegue per verificare ulteriori responsabilità e chiarire tutti gli aspetti della vicenda.