Chissà cosa avrebbero pensato quei giovani idealisti che manifestavano a Genova nel luglio del 2001, se qualcuno avesse detto loro che, poco meno di un quarto di secolo dopo, un presidente americano di estrema destra avrebbe costruito una campagna elettorale promettendo di smantellare la globalizzazione, di imporre dazi commerciali e di riportare in patria le industrie fuggite altrove in cerca di manodopera a basso costo. E, ancor più incredibile, che in risposta a queste politiche, la sinistra o quella parte di mondo politico che non si identifica con la destra estrema avrebbe alzato i muri in difesa del libero mercato globale, della produzione senza confini e del commercio a dazi zero.
Probabilmente non ci avrebbero creduto. E forse tra quei ragazzi c’è oggi più di un adulto che, pur detestando Donald Trump e tutto ciò che rappresenta, si ritrova spiazzato davanti a un paradosso politico sempre più evidente: la sinistra, da tempo, ha smesso di immaginare alternative reali al sistema economico dominante. E ora si trova addirittura a difenderlo. Intendiamoci: le ragioni per considerare i dazi di Trump una scelta miope e pericolosa non mancano. Questi interventi, più che un progetto di giustizia economica, sembrano l’ennesima espressione di un nazionalismo economico utile più a raccogliere consensi che a correggere gli squilibri planetari. Sono l’altra faccia dell’imperialismo americano, e non certo strumenti pensati per rendere il mondo più equo.
Ma una domanda dobbiamo comunque farcela: perché la sola idea che un Paese voglia riportare in patria la propria manifattura con l’obiettivo, anche solo simbolico, di creare occupazione per chi ne è rimasto escluso provoca tanta indignazione? Perché scandalizzarsi se un leader, anche solo per calcolo politico, decide per una volta di ignorare le borse che crollano, i titoli tecnologici che perdono qualche punto e i miliardi virtuali che evaporano dai portafogli digitali delle multinazionali? Siamo davvero arrivati al punto da ritenere che ogni deviazione dal dogma neoliberista sia di per sé un male? Oppure lo è solo perché a proporla è stato Donald Trump? È una provocazione? Forse.
Ma non del tutto. Perché che la destra abbia intuito per prima che strumenti come dazi e tariffe potessero essere usati anche per frenare alcune delle più evidenti distorsioni della globalizzazione, mentre la sinistra si è limitata a difendere lo status quo, è un fatto che racconta meglio di molti trattati la crisi di identità della sinistra contemporanea. Una sinistra che avrebbe dovuto essere, per vocazione storica, il principale motore di una critica al capitalismo iper-finanziarizzato e deregolamentato. Eppure, gli strumenti per una “globalizzazione alternativa” esistono. Alcuni li abbiamo già sperimentati, altri sono solo in attesa di volontà politica.
La carbon tax, ad esempio, è un dazio ecologico: un meccanismo per far pagare di più i prodotti che inquinano, disincentivando l’uso intensivo di combustibili fossili. La Tobin Tax è un’altra forma di dazio, pensata per tassare le transazioni finanziarie speculative che, in pochi secondi, possono spostare enormi capitali da un Paese all’altro, destabilizzando intere economie. Un altro dazio possibile è una tassa seria sulle grandi piattaforme digitali, che guadagnano miliardi in Europa minando interi settori economici locali e pagando le tasse nei paradisi fiscali. E ancora: perché non prevedere dazi etici per i prodotti provenienti da Paesi dove il lavoro è sfruttamento legalizzato, se non vera e propria schiavitù? Perché non incentivare la produzione locale, sostenibile, tracciabile, penalizzando al contempo quelle filiere che si basano sulla compressione dei diritti umani e ambientali? In sintesi: la risposta “di sinistra” ai dazi non può essere quella di erigersi a difesa incondizionata di una globalizzazione che ha generato squilibri, disuguaglianze e rabbia sociale.
Al contrario, dovrebbe essere proprio questa la miccia per riaccendere un pensiero critico, per immaginare un modello globale più giusto, dove lo scambio economico non sia mai separato dai diritti, dalla dignità del lavoro e dalla sostenibilità. Certo, oggi come oggi, sembra quasi utopico pensare che una forza progressista possa proporre davvero tutto questo. Ma proprio da Genova 2001 ci arriva un insegnamento ancora valido: un altro mondo è possibile. E anche se quel mondo non è arrivato come lo immaginavano i ragazzi in piazza, la storia, con le sue svolte inattese, ci dice che molte delle loro ragioni, col tempo, si sono rivelate fondate. Forse è ora che qualcuno, anche a sinistra, torni ad ascoltarle.