Gianni De Gennaro, ex capo della polizia, non ha dubbi: le stragi mafiose degli anni Novanta furono attacchi allo Stato e non ricatti della mafia che, tra l’altro, subì forti contraccolpi da azioni così ravvicinate nel tempo. L’ex superpoliziotto ha risposto così nell’aula bunker del carcere di Palermo durante il processo sulla trattativa tra Stato e mafia intavolata per fermare gli attentati che stavano insaguinando l’Italia nel biennio 1992 e 1993.
De Gennaro non era però l’unico test. Sul banco degli imputati c’erano anche Ciancimino Junior, figlio del sindaco mafioso Vito Ciancimino, politici come Marcello Dell’Utri e Nicola Mancino, boss come Totò Riina e Leoluca Bagarella, ufficiali dell’Arma come Mario Mori e Giuseppe De Donno. L’accusa aveva deciso di chiamare in causa l’uomo che dirigeva la Dia per sapere come e perché le istituzioni avessero deciso di dialogare con Cosa Nostra in quel periodo cruciale per la storia della Repubblica.
De Gennaro ha spiegato che gli attentati degli anni Novanta rientravano in una strategia finalizzata a destabilizzare le istituzioni per scopi che però non erano del tutto chiari. Ha raccontato che la dimensione della violenza era tale che il presidente del Consiglio Ciampi temette perfino un colpo di Stato in seguito al black out che interruppe le comunicazioni a Palazzo Ghigi dopo le esplosioni di Roma e Milano.
De Gennaro non ha nascosto la perplessità che molti nutrivano dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino. I servizi segreti non si spiegavano come mai la mafia avesse deciso di colpire a così breve distanza di tempo. Conoscevano Cosa Nostra e sapevano che calibrava i delitti per non destare allarme nell’opinione pubblica. E adesso la vedevano reagire all’impazzata incurante dell’effetto boomerang che avrebbe innescato, cosa che spinse gli 007 a ipotizzare anche complicità esterne alla mafia.
De Gennaro ha ricordato che il capo del Ros Antonio Subranni non era certo che l’attentato di Capaci fosse opera di Cosa Nostra. La pista mafiosa diventò consistente solo a partire dal 1993. La Dia, proprio in quel periodo, inviò una relazione al ministro dell’Interno Nicola Mancino in cui spiegava che il rallentamento della trattativa tra Stato e mafia, avvenuta con gli omicidi di Falcone e Borsellino, aveva contribuito alla ripresa della strategia del terrore da parte di Cosa Nostra nel 1993 con lo scopo di annullare il regime del carcere duro per i boss mafiosi. Cosa che poi non avvenne e che non ha mai convinto del tutto.