È morto Philip Roth, il tormentato romanziere che ha esplorato la lussuria, la vita ebraica e l’America (2 / 2)

La sua scrittura aveva sempre un tono disincantato, a tratti provocatorio, nei suoi libri faceva delle riflessioni sulla condizione ebraica dopo la Shoah, il rapporto con suo padre e la sua sessualità.

Nel 2006, nonostante il suo dichiarato ateismo, nel romanzo breve Everyman ha consegnato ai lettori una delle delle più profonde meditazioni sulla morte apparse nella letteratura degli ultimi decenni. È stato più volte candidato al Nobel ma senza successo, nel 2014 Roth aveva annunciato definitivamente il suo ritiro dall’attività letteraria.

 

Se n’è andato lo scrittore più influente e complesso della letteratura contemporanea, un uomo che è riuscito a pubblicare più di trenta romanzi in Italia da Einaudi e raccolti in tre Meridiani. La sua carriera è iniziata nel 1959 a soli ventisei anni, pubblicò una raccolta di sei racconti Addio, Columbus. Il suo maestro, collega e amico, Richard Stern, resterà sempre il suo maestro perché l’ha spinto a scrivere un episodio che gli era veramente accaduto, un’estate passata a corteggiare una ricca figlia di un commerciante ebreo nel New Jersey.

Una storia d’amore tra due ventenni che lo ispirò a trattare temi classici, l’amore, la religione, la lussuria e le ipocrisie della società americana.

Nel 1969 ottiene un enorme successo con Il lamento di Portnoy, nel libro racconta la tragicomica conquista del piacere ma fu anche uno scandalo. Nel 1981 scrive Zuckerman che si porta anche in quello che è stato definito come il capolavoro di Roth, Pastorale americana del 1997, in questo romanzo lo scrittore tratta temi politico-sociali per cui gli vale il premio Pulitzer.