Per Julian Assange non sembra essere finita

Ieri, dopo parecchie settimane d’attesa, è arrivata la sentenza dei giudici dell’Alta Corte di Londra sul processo di estradizione per Assange negli Stati Uniti

Per Julian Assange non sembra essere finita

Londra – I due giudici dell’Alta Corte di Londra, Sharp e Johnson, hanno rinviato la decisione sull’estradizione del fondatore di Wikileaks, Julian Assange, chiedendo agli Stati Uniti delle garanzie sul fatto che l’imputato non rischierà la pena capitale e godrà delle stesse protezioni del Primo Emendamento di un cittadino degli Stati Uniti.

Se non arriveranno entro il 16 aprile, sarà concesso ad Assange il permesso di ricorrere a un ulteriore appello di fronte alla giustizia britannica contro la consegna alle autorità americane, in caso contrario ci sarà una nuova udienza che si terrà il 20 maggio, prima che venga presa una decisione definitiva.
Infatti la preoccupazione della pena capitale era stata sottolineata dagli avvocati del giornalista australiano nel riportare un commento dell’ex presidente Trump che, nel 2010, parlando di WikiLeaks avrebbe detto che in casi come questo dovrebbe esserci la pena caputale o qualcosa del genere.

Dopo che il Regno Unito ha dato il via libera alla sua estradizione l’anno scorso, a febbraio i suoi avvocati hanno provato un ultimo tentativo nei tribunali britannici per contestare la decisione, sostenendo che il loro assistito abbia reso pubbliche quelle informazioni perché è un giornalista, mentre gli americani lo accusano di spionaggio e cospirazione in quanto sostengono che la pubblicazione delle notizie abbia messo in pericolo la vita dei loro agenti e che non ci sono scuse per la sua malvivenza.

Secondo Stella Moris Assange, 40 anni, sudafricana e avvocata dei diritti umani, invece, le garanzie chieste dai giudici britannici agli Stati Uniti sono inaffidabili poiché se suo marito fosse estradato in America, sicuramente succederebbe qualcosa di grave o si toglierebbe la vita, visto che le autorità americane hanno provato più volte a catturarlo, per poi volerlo processare e condannare per 18 capi d’accusa riconducibili alla diffusione, da parte di WikiLeaks (sito web lanciato dal giornalista australiano nel 2006), di una vasta quantità di documenti militari e diplomatici statunitensi riservati, che sono sotto la protezione della legge anti spionaggio.

La saga legale che continua ad andare avanti da più di dieci anni vede Assange rimanere ancora a Belmarsh, in cui si trova da cinque anni, dopo essere stato arrestato dalla polizia britannica nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, dove si era rifugiato sette anni prima, perché gli è stato revocato l’asilo politico.

Alla sua detenzione sono legate anche le sue condizioni di salute che continuano ad essere sempre più precarie come affermano gli ultimi giornalisti che sono entrati nel prigione di massima sicurezza londinese e lo hanno visto stanco, invecchiato e provato dai lunghi anni senza libertà, tanto che diverse organizzazioni per i diritti umani e attivisti hanno criticato il trattamento che sta subendo e hanno espresso preoccupazioni per il rispetto dei suoi diritti.

Non resta, quindi, che attendere la decisione dell’Alta Corte di Londra, ma qualunque essa sia sicuramente WikiLeaks e Julian Assange resteranno due simboli di una delle pagine più importanti e controverse del giornalismo nell’era di internet proprio perché c’è la capacità di creare strumenti in grado di rivelare le informazioni, rendendole accessibili a tutti; influenzare la politica internazionale e mettere in risalto le responsabilità dei governi mondiali. Questa è l’eredità che lascia WikiLeaks, mentre la vicenda Assange sta sollevando dubbi e questioni etiche su alcuni temi e diritti come il ruolo del giornalista e del giornalismo, ma anche quelli sulla libertà di stampa e il diritto all’informazione. Tutte questioni sulle quali c’è un dibattito, tutt’ora, aperto.

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