“Quando la gente pensa alle Ande dice 72 giorni. Io sempre dico che non sono stati 72 giorni, ma 72 notti. I ricordi sono soprattutto delle notti che trascorremmo lì. Erano terribili. Se l’inferno esiste, non è con fuoco, ti posso assicurare che è con gelo e buio”. Con queste parole uno dei sopravvissuti alla Tragedia delle Ande, Fernando Parrado, descrive al giornale uruguaiano Espectador la terribile esperienza dell’incidente aereo terminata con solo 16 persone vive.
Il 13 di ottobre del 1972, l’aereo della compagnia Fairchild decollò da Mendosa diretto a Santiago. Il viaggio aveva lo scopo di portare i giocatori della squadra uruguaiana Old Christians Rugby Club a disputare un’amichevole con una squadra cilena.
Il Fairchild che avrebbe dovuti portarli a Santiago si schiantò sulla cima di una montagna, a 4500 metri di altezza. “Non ci fu il tempo per pregare o per avere paura. Tutto avvenne in un battito di ciglia”, scrive Parrado nel suo libro “Milagro en Los Andes”.
Da quel momento iniziò una lotta per la sopravvivenza che durò 72 lunghi giorni di temperature sotto zero, fame e disperazione. Non tutti riuscirono a resistere.
Si pensa ad un errore di lettura del pilota, a causa del quale, dopo aver superato una fitta coltre di nubi, anziché la pista di atterraggio, si trovò davanti una parete rocciosa. Nell’impatto morirono tredici persone.
Con il passare dei giorni le scorte di cibo diventavano più scarse, e i segni di denutrizione iniziavano a essere evidenti, a tal punto che i sopravvissuti pensarono di utilizzare i corpi senza vita come alimento. Alcuni si rifiutarono, per ragioni morali e religiose; ma quando Roberto Canessa, studente del secondo anno di medicina, prese l’iniziativa, altri lo seguirono. Altri ancora aspettarono fino al punto in cui il loro corpo ormai non rispondeva.
Quando il 23 dicembre il miracolo si fece reale e i 16 sopravvissuti furono messi in salvo, iniziò la polemica: “Come erano riusciti a sopravvivere tanti giorni nella neve e senza viveri?”. Nonostante i dubbi iniziali, i sopravvissuti riconobbero e giustificarono che avevano dovuto ricorrere al cannibalismo per riuscire a sopravvivere.
Inizialmente lo negarono, ma quando i quotidiani El Mercurio e La Tercera de la Hora pubblicarono fotografie di resti umani vicino all’aereo scattate dal Corpo di Soccorso Andino, i sopravvissuti furono costretti a fare una conferenza stampa per raccontare i reali fatti. Ringraziarono profondamente per la comprensione ricevuta dai famigliari dei deceduti, che li appoggiarono in ogni momento: “Loro dissero che meno male che eravamo in 45 affinché potessero avere 16 figli di ritorno. Ci amano come figli.”