Una triste storia di schiavitù arriva dal Kuwait, emirato asiatico in cui il fenomeno dei lavoratori domestici è particolarmente diffuso, dal momento che se ne contano uno per ogni due cittadini kuwaitiani (è infatti il Paese con la più alta percentuale di lavoratori domestici rispetto ai cittadini di tutto il Medio Oriente). A raccontarla è stato Pete Pattinson, giornalista, videomaker e fotografo britannico, sulle pagine dell’edizione online del The Guardian. “Al piano terra di un vecchio complesso di torri vicino a Kuwait City, gli agenti di reclutamento sono alle prese con file di lavoratrici domestiche in buona salute, pronte a lavorare: <<Scegli quella che vuoi>> dice uno di loro, con un sorriso <<Ti darò cento giorni di garanzia. Se non ti piacerà, potrai rimandarla indietro>>”. Esattamente come un qualsiasi elettrodomestico difettoso, o qualche bestia da soma poco collaborativa.
Così comincia il racconto di Pattinson, che s’addentra nei meandri di una piaga oscura, particolarmente diffusa nel Paese mediorientale: il traffico di esseri umani. Alcune donne della Sierra Leone, ex lavoratrici domestiche impiegate in Kuwait, hanno infatti denunciato di essere state vendute come schiave ad alcune famiglie della capitale del Paese, per poi essere successivamente rivendute ad altri offerenti. “Hanno pagato circa 1480 dollari agli agenti di reclutamento in Sierra Leone, con la promessa di lavorare come infermiere negli ospedali, o nell’industria alberghiera. Solo per trovarsi, al loro arrivo, vendute alle famiglie come domestiche, e costrette a lavorare fino a 22 ore al giorno”.
Adama, 24 anni, è una delle tante donne portate in Kuwait con l’inganno, e poi ridotte in stato di schiavitù dalle famiglie locali. “Ci portavano nei loro uffici, e le persone venivano ad osservarci. Se dicevano <<voglio lei>>, ti portavano a casa loro-ha raccontato la ragazza-dovevi lavorare 24 ore al giorno, senza giorni di ferie. Non potevi mai lasciare l’abitazione, e non ti era permesso utilizzare cellulari”. Adama, riporta Pete Pattinson, si è poi sollevata la gonna per mostrare un’orribile cicatrice, estesa per quasi tutta la sua coscia destra. Uno sfregio, a detta della ragazza, provocato deliberatamente dalla sua datrice di lavoro con olio bollente, mentre la ragazza stava cucinando. “Piangevo, ma non mi guardava nemmeno. Le dissi <<Madam, perché mi hai fatto questo?>>, mi rispose che ero una schiava troppo lenta, che non ero abbastanza veloce”.
Migliaia di donne, denuncia il corrispondente del The Guardian, viaggiano verso il Kuwait ogni anno. Lavoratrici provenienti dall’Asia, ma anche dall’Africa; da Paesi come la Sierra Leone appunto, ma anche Camerun, Kenya ed Etiopia. E le leggi locali non aiutano affatto, denuncia Rima Kalush, co-direttore di migrant-rights.org.“Il concetto di monitorare il lavoro domestico è messo in discussione da molti governi nel mondo-afferma la Kalush-in quanto i controlli comprometterebbero la privacy della casa. Ci sono molti casi di donne scomparse, abbiamo ricevuto numerosi report dalle famiglie. In alcuni di essi le lavoratrici vengono poi ritrovate, ma la maggior parte dei casi di sparizione rimangono irrisolti”.
E talvolta sono gli stessi agenti, secondo quanto confessato da Adama al The Guardian, i primi aguzzini delle donne ridotte in schiavitù. La ventiquattrenne ha infatti raccontato di essere rimasta rinchiusa all’interno di un’abitazione per tre giorni, senza cibo; una punizione dovuta al fatto che la famiglia per la quale lavorava, aveva deciso di rispedirla al mittente.
“(Adama) E’ scappata-continua Pete Pattinson-ed ha trovato rifugio presso l’ambasciata della Sierra Leone, prima di essere condotta in un rifugio per domestiche riuscite a sfuggire alla prigionia”. Qui, scrive il corrispondente del quotidiano britannico, si è unita a circa 300 lavoratrici domestiche in attesa di essere deportate nei propri Paesi d’origine. Ma anche in quei rifugi, la situazione non è delle migliori. Perché secondo le leggi del Kuwait, le donne sono obbligate a denunciare tutti gli altri lavoratori impiegati nelle abitazioni private; inoltre non possono uscire, né utilizzare i telefoni cellulari. Possono contattare le famiglie unicamente dal telefono della struttura, e soltanto nei fine settimana. “Una situazione che può andare avanti per mesi, se non anni” specifica Pattinson.
Ma la cosa peggiore, denuncia il giornalista, è che la situazione non sembra essere destinata a migliorare: nonostante le numerose promesse infatti, il governo del Kuwait non ha ancora fatto nulla di concreto per migliorare le condizioni di vita dei lavoratori domestici. Abdul Alhanim, capo dell’ufficio lavoratori immigrati della Kuwait Trade Union Federation, ha infatti affermato che: “C’è stato un progetto di legge riguardante i lavoratori domestici, ma non è mai passato in Parlamento. Secondo la mia opinione, il governo ed il Parlamento non sono interessati a prendere sul serio questo problema”.
L’ultima testimonianza citata da Pattinson è quella di Alima, lavoratrice domestica proveniente sempre dalla Sierra Leone, inserita in uno dei rifugi in seguito alla sua fuga. Alima scoprì di essere incinta poco dopo il suo arrivo in Kuwait, ma il suo agente reclutatore si rifiutò di rispedirla a casa, a meno che la sua famiglia non avesse pagato il biglietto aereo di tasca propria. Soldi di cui i familiari della donna non disponevano. Così Alima è rimasta in Kuwait, ed ha dato alla luce il proprio figlio, Richie, da sola, in un ospedale locale. “Voglio solo tornare a casa-la cita Pete Pattinson-ho sofferto troppo qui”.