Caso Floyd. Jabbar: "Non protestiamo per riaprire un bar ma per vivere e respirare"

In un editoriale per il Los Angeles Time, Kareem Abdul Jabbar, la leggenda dell'NBA, spiega come sia banalmente normale, negli USA, il razzismo nei confronti degli afroamericani. A scuola, sul lavoro e in tribunale, il nero è sempre un potenziale sospetto.

Caso Floyd. Jabbar: "Non protestiamo per riaprire un bar ma per vivere e respirare"

Quale potrebbe essere stata la nostra prima reazione, dopo aver visto il video dell’agente bianco della polizia di Minneapolis, in ginocchio sul collo di George Floyd mentre gridava: “Non riesco a respirare“? Se lo chiede e ce lo chiede, in un editoriale per il Los Angeles Time, Kareem Abdul Jabbar, leggendario cestista di colore, miglior realizzatore di tutti i tempi della NBA, ed ora apprezzato saggista, con sedici libri pubblicati all’attivo.

Jabbar immagina che, se lo spettatore è bianco, rimarrà probabilmente inorridito, scuotendo la testa per questa crudele ingiustizia, ma un nero balzerà in piedi, scagliando qualcosa, imprecando e gridando: Non ancora!. Perché i neri che hanno visto Floyd sotto il ginocchio di un poliziotto, scrive Jabbar, si sono ricordati di Ahmaud Arbery, uccisa mentre faceva jogging in un quartiere bianco da vigilantes che, se non fosse stato per un video di sorveglianza, avrebbero continuato la loro vita indisturbati.

Proprio come quei poliziotti di Minneapolis, sorpresi a dichiarare che Floyd stava resistendo all’arresto, mentre invece quel video dimostra il contrario, mostrando l’agente, privo di pietà, con il ginocchio sul collo di George, che non schiumava rabbia ma era calmo e tranquillo: la banalità del male. L’ex cestista ricorda altri episodi di razzismo, inquietanti perché ormai inseriti nella normale vita quotidiana. Come la ragazza che al Central Park di New York chiama il 911, si sente minacciata solo perché un uomo di colore le chiede di mettere il guinzaglio al suo cane. o la studentessa nera della Yale University che, mentre schiaccia un pisolino nella sala comune del dormitorio, viene segnalata da uno studente bianco.

“Ti stai rendendo conto – scrive Jabbar – che non è un presunto criminale nero ad essere preso di mira, ma qualunque faccia di colore”. In merito alle violenze e i saccheggi durante le proteste, Jabbar ricorda che i neri sono abituati al razzismo istituzionale: scuola, giustizia, lavoro, “…anche se facciamo le cose per bene , convenzionalmente, cercando di sensibilizzare l’opinione pubblica, votando candidati più sensibili ai diritti civili, l’ago della bilancia rimane fermo.

Gli incidenti, secondo Jabbar, sono sfruttati come un diversivo per non affrontare il problema, stigmatizza saccheggi, negozi distrutti e in fiamme. Però ricorda che gli afroamericani vivono da anni in un edifico in fiamme, mentre le fiamme si avvicinano e la polvere è nell’aria. Poi, spalancando le finestre per respirare, si accorgono che quel fumo è dappertutto, come il razzismo.

Il Covid-19 ha esasperato tutte le conseguenze di questa situazione. Non solo muoiono più neri dei bianchi a causa delle condizioni socio-economiche: infatti sono i primi a perdere il lavoro e “…osserviamo inermi i repubblicani, che cercano di impedirci di votare. Sembra che sia aperta la stagione di caccia al nero, basta vedere i tweet di Trump ..”, scrive Jabbar.

La preoccupazione dei manifestanti, ora, non è il distanziamento sociale ma sapere se i loro figli e nipoti saranno assassinati da un poliziotto, mentre fanno una passeggiata, fanno jogging o fanno la spesa. Se essere neri significherà stare chiusi per sempre nelle case, perché il virus del razzismo infetta l’America molto più del Covid-19.

I neri che protestano sono esasperati, “… non manifestano per riaprire un bar o un salone di bellezza ma per respirare, per vivere. La cosa peggiore è dover giustificare il nostro comportamento…”, considerato un ulteriore oltraggio da Jabbar, che cita Langston Highes che quasi 70 anni fa scrisse nella poesia Harlem: “Cosa succede a un sogno rinviato? Forse si piega per il peso o forse esplode?“.

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