La fine del lockdown e l’auspicio di un nuovo Rinascimento italiano

La Storia ci insegna che dopo un periodo di crisi segue, inevitabilmente, un periodo di rinascita: civile, sociale, economica.

La fine del lockdown e l’auspicio di un nuovo Rinascimento italiano

Il 4 maggio, salvo proroghe, finirà il periodo di lockdown, in cui siamo stati tutti chiusi nelle nostre case a seguito delle misure di contenimento disposte dal Governo. Poi, lo sappiamo tutti, ci aspetterà comunque un periodo difficile, di crisi economica (auspicando la fine della crisi sanitaria).

Ma voglio lanciare un messaggio positivo: dopo la notte, viene sempre il giorno; dopo l’inverno, arriva la primavera. Fa parte del ciclo naturale della vita. Anche la Storia ci insegna che dopo un periodo di crisi segue, inevitabilmente, un periodo di rinascita: civile, sociale, economica. Prepariamoci.

La crisi nella storia

Nella Storia le crisi traboccano e segnano il passo: crisi di paradigma sociale e culturale, crisi economiche e finanziarie, crisi umanitarie, crisi epocali, crisi ecologiche, crisi politiche. Crisi globali (la crisi dell’impero romano, la crisi dei tulipani nel ‘600, la grande depressione del 1873-1895) e crisi locali (la crisi degli anni Novanta in Giappone e delle c.d. Tigri Asiatiche, la crisi del 1997 in Albania e del 1998 in Russia). Nel solo Novecento si contano numerose crisi: del 1929, del 1973, del 1987. E poi negli anni Duemila la crisi del 2001 e quella del 2008. 

È proprio nei momenti di crisi, tuttavia, che la Storia ha fatto dei balzi in avanti incredibili, spingendo l’uomo a studiare, creare, inventare, scoprire, migliorare. 

Una delle crisi più note della storia è quella del Trecento, spesso paragonata alla più recente grande crisi del 2008. Verso la fine del Duecento, l’aumento della popolazione si accompagnò alla saturazione della coltivazione di nuovi terreni; le condizioni climatiche peggiorarono, con inverni rigidi e prolungati, estati eccessivamente piovose, alluvioni e grandinate. Così, a causa degli scarsi raccolti del biennio 1315-1317 i prezzi dei cereali salirono, e cominciò la “grande carestia” in tutto il vecchio continente. Inoltre la produzione e commercializzazione di alcuni prodotti, soprattutto tessili, ristagnò e vi fu un grave collasso finanziario. 

In particolare a Firenze, il maggiore centro finanziario della penisola, quando nel 1342-1346 fallirono a catena alcune grandi compagnie commerciali – dei Bardi, dei Peruzzi, degli Acciaiuoli, che si erano consorziate per fare prestiti ai grandi sovrani dell’epoca – a causa dell’insolvenza di re Edoardo III d’Inghilterra, sconfitto nella guerra dei cent’anni. E una nuova carestia si abbatté sull’Europa nel decennio 1340-1350.

Da ultimo, nell’autunno del 1347, giunse in Europa un’ondata di pestilenza, proveniente dall’oriente, tramite le navi genovesi che facevano la spola tra Mar Nero e Mediterraneo per il commercio del grano. La pandemia si diffuse nelle zone portuali, arrivando a Messina e poi nelle città sul Tirreno, per poi diffondersi ovunque: dopo un iniziale rallentamento nei mesi invernali, dal mese di marzo al maggio del 1348 il contagio si propagò molto velocemente. Per tre lunghi anni la pandemia imperversò nel vecchio continente, fino all’estate del 1350 compresa: gli studi parlano di una mortalità media del 25 per cento della popolazione, con picchi, in Germania, in Francia e in Italia, del 30-35 per cento e oltre. La pandemia terminò la fase acuta tra il 1350 e il 1351.
Ma proprio nel momento più buio dell’Europa, vi fu una svolta. La crisi generale del Trecento riuscì ad innescare anche un riassetto economico e produttivo. 

Per esempio le compagnie commerciali divennero, dopo i fallimenti a catena del 1342-1346, più flessibili, in modo che l’eventuale fallimento di una filiale non si ripercuotesse sull’intera compagnia. Venne meno il monopolio tessile delle Fiandre in favore di altre zone, come l’Olanda, l’Inghilterra e l’Italia. Si svilupparono inoltre le attività manifatturiere nelle campagne, come quelle tessili, metallurgiche e cartarie. Si diffuse, oltre alla lana, l’uso di fibre vegetali come la canapa e il lino, grazie anche alla nuova moda di indossare camicie e sottovesti. Aumentò la domanda della seta e del vetro. Aumentò il volume dei commerci soprattutto di vini, alimenti, stoffe, che resero necessarie navi più ampie e capienti, come la cocca. Vennero sviluppati strumenti per il commercio come la partita doppia e la lettera di cambio. Si fece strada un nuovo ceto imprenditoriale e capitalistico. Il brusco calo demografico riequilibrò il rapporto tra risorse e individui, portando un miglioramento complessivo.  Soprattutto, dopo la crisi del Trecento vi fu il grande sviluppo artistico dell’Umanesimo e del Rinascimento. Fiorirono le arti e iniziò uno dei periodi più elevati della storia dell’umanità. 

Dopo la peste, i fortunati sopravvissuti cominciarono a ripensare al valore della vita e alle sue gioie. Dopo anni terribili, la gente volle godersi la vita, spendere i denari accumulati, vestirsi bene, acquistare case più spaziose, elevarsi culturalmente. E in questo processo le città italiane – Firenze, Venezia, Genova, Milano, Roma – furono all’avanguardia in tutta Europa.

Ce la faremo perché siamo italiani

Anche dopo questa pandemia e la conseguente crisi economica, ce la faremo, ne sono certo. Sarà durissima, ma ce la faremo. Perché siamo italiani.
La nostra storia ce lo testimonia. Nei momenti più difficili, noi italiani abbiamo sempre tirato fuori il meglio.

Prima che arrivasse il benessere, nell’Italia povera abbiamo sempre saputo tener botta, supportare con animo sodale e pazienza infinita emigrazioni e pellagra, dittature e invasioni, epidemie e carestie, convinti che alla fine ce l’avremmo fatta a piegare nemici e sfortuna. Ce la faremo anche questa volta.

Persino nel nostro momento migliore, il Rinascimento, Lorenzo il Magnifico poetava: “Di doman non c’è certezza”. Ecco un caso in cui la Storia dovrebbe rassicurarci: noi il precariato esistenziale lo abbiamo nel Dna. Ma per farcela dobbiamo ricordarci le nostre doti. Che non sono poche.

Pensiamo che nel mondo, noi italiani, siamo ammirati. Non solo per la moda, il design, lo stile, il buon cibo, il vino, la cultura, il sole, il patrimonio artistico. L’Italia è la prima potenza culturale del mondo e, ovunque, ci invidiano il nostro gusto del bello.

Lo storico Carlo Cipolla nel suo “Vele e Cannoni” esemplifica questo nostro innato ed atavico amore per la bellezza: mentre a partire dal Quattrocento gli inglesi iniziarono a fabbricare cannoni di ferro pratici ed efficienti, nonché più economici, con forme semplici e senza tanti orpelli, in Italia si continuavano a prediligere cannoni di bronzo ornati, cesellati, e per questo più costosi. C’erano stati casi di “signori” che per amore del bello, avevano fatto cesellare e decorare non solo le bocche da fuoco, ma anche le palle da cannone, pur sapendo che ciò andava a scapito dell’efficienza della loro artiglieria. Insomma, già centinaia di anni fa la praticità inglese si scontrava contro l’amore del bello italiano.

Siamo ammirati anche perché siamo innovativi. Certo, abbiamo i nostri difetti, tipicamente l’incapacità di fare squadra e l’invidia per il successo altrui, ma quello che generalmente si ritiene differenziare gli italiani dagli altri popoli è la capacità di ragionare fuori dagli schemi. To think out of the box. Ci viene dalla nostra storia.

Ne usciremo e se sapremo imparare da ciò che è accaduto e dai nostri errori, facendo leva sui nostri pregi, saremo più forti. Ce la faremo uscendo fuori dagli schemi, rompendo i paradigmi e le regole. Uscendo dalla nostra zona di comfort. Nei momenti di sconforto, che arriveranno, ricordiamoci che siamo italiani. 

Ci rimboccheremo le maniche, ci reinventeremo, innoveremo, per creare il nuovo Rinascimento italiano. Sarà dura, ma ce la faremo.

Autore: Avv. Marco Greggio
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