Il sogno tedesco si è arenato. La Germania sembrava destinata a rimanere per sempre la grande locomotiva che trascinava l’economia del vecchio continente. La sua crescita non si era fermata nemmeno negli anni di crisi, grazie alla corsa forsennata della Cina e di altri Paesi emergenti che, contrariamente alle nazioni occidentali, vedevano il prodotto interno lordo crescere a rotta di collo.
Ma la pacchia è finita. La frenata del colosso cinese e la recessione che ha colpito i Paesi importatori hanno avuto effetti pesanti sulle esportazioni germaniche. L’industria tedesca, influenzata negativamente anche dallo scandalo della Volkswagen, è entrata in difficoltà e la Deutsche Bank ammette di essere in debito d’ossigeno e davanti a un semaforo rosso.
Gli analisti non nutrono ottimismo sul futuro della Germania per almeno i prossimi mesi o anni. Non parlano ancora di crisi economica, ma i segnali sembrano esserci tutti, nonostante le continue smentite di chi sottovaluta il peso determinante che potrà avere sull’industria tedesca lo scandalo automobilistico.
La Germania è la prima potenza economica europea: il suo prodotto interno lordo è doppio di quello italiano. Ciò l’aveva resa meta privilegiati per tanti disoccupati stranieri, italiani compresi. Quest’anno era prevista un’impennata, ma il quadro è cambiato. La produzione industriale è calata e le esportazioni sono crollate insieme alle ordinazioni cinesi che rappresentavano la seconda fonte di ricavo dopo Francia e Stati Uniti.
Le banche non se la passano meglio. Il maggior istituto di credito del Paese ha comunicato di prevedere nel terzo trimestre una perdita di oltre sei miliardi di euro, la più alta da un decennio. Il nuovo amministratore delegato del gruppo, John Cryan, ha varato un piano di taglio dei costi che prevederà un esubero di ventitrémila dipendenti su un totale di centomila per far fronte a svalutazioni ed esborsi e aveva avvertito i dipendenti che “la performance non era buona da nessuna parte”.