Secondo l’Ufficio Studi della CGIA di Mestre, ogni anno gli italiani spendono 19 miliardi di euro in attività illegali. Di questo importo la fetta più cospicua (14,3 miliardi) è destinata all’acquisto di sostanze stupefacenti. Al secondo posto troviamo la prostituzione (4 miliardi di euro), mentre al terzo il contrabbando di sigarette (600 milioni di euro).
Ma per descrivere con più minuzia il fenomeno, sono disponibili anche altri numeri. Innanzitutto la spesa complessiva pari a 19 miliardi di euro equivale pressappoco ad un punto di Pil. Inoltre negli ultimi quattro anni, il dato di queste attività fuorilegge ha conosciuto un incremento stimato in quattro punti percentuali.
Come ulteriormente approfondito da Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio studi della CGIA di Mestre, tutto ciò non può che ricadere sulle spalle di tutti. “Il giro d’affari che questa economia produce, costringe tutta la comunità a farsi carico di un costo sociale altrettanto elevato”.
Ma non c’è solo questo. Il segretario della CGIA Renato Mason ha anche puntualizzato un altro aspetto non certo trascurabile. Da settembre 2014 le attività illecite entrano a far parte del calcolo del Pil di diversi Paesi, Italia compresa. Con una dovuta precisazione: vengono considerate le sole transazioni illecite in cui è ravvisabile un accordo tra le parti. Il traffico di droga, la prostituzione e il contrabbando rientrano in questa categoria. Sono invece escluse le attività illecite come furti, rapine, usura e altre fattispecie delittuose dove la controparte non è complice, ma vittima del crimine.
Un riscontro sull’elevata dimensione economica generata da questo tipo di attività si ha consultando le segnalazioni pervenute all’Unità di Informazione Finanziaria (UIF) della Banca d’Italia. Tra il 2009 e 2016 le segnalazioni hanno conosciuto un incremento che sfiora il 380%. Secondo Zabeo, tutto ciò ha una spiegazione molto semplice. “I gruppi criminali hanno la necessità di reinvestire i proventi delle loro attività nell’economia legale, anche per consolidare il proprio consenso sociale”.