Quando parliamo di “auto elettriche” pensiamo alla riduzione di emissione di CO2 e il beneficio per l’ambiente grazie al taglio con i combustibili fossili. E’ meno immediato pensare ai componenti delle batterie delle auto elettriche, che per funzionare necessitano di cobalto, minerale utilizzato per produrre le batterie agli ioni di litio.
La Repubblica Democratica del Congo, paese povero e politicamente instabile, possiede almeno due terzi del cobalto mondiale, ma non è in grado di trarne dei benefici. La corsa ai “minerali da batterie” ha portato i congolesi, in prima fila i bambini, a lavorare, ripagati con pochi centesimi al giorno, in condizioni disumane.
L’appello
La direttrice del programma Economia e diritti umani di Amnesty International, Seema Joshi, un anno fa aveva affermato che “le aziende devono prendersi la responsabilità di dimostrare che non stanno facendo profitti sulla miseria di chi estrae il cobalto, in condizioni terribili, nella Repubblica Democratica del Congo“.
L’ong, dopo la ricerca “Ecco per che cosa moriamo“, ha lanciato l’appello “E’ tempo di ricaricare” rivolto alle grandi aziende come Apple, Samsung Electronics, Microsoft, Dell, BMW, Renault e Tesla, affinchè nei loro rifornimenti migliorassero le modalità di estrazione del cobalto.
Passato un anno dall’appello, Siddharth Kara, professore ed esperto di schiavitù contemporanea, ha scritto una lettera aperta, pubblicata dalla Thomson Reuters Foundation: “Sono tornato da poco da un viaggio di ricerca nella Repubblica Democratica del Congo, dove migliaia di bambini lavorano in condizioni terribili per qualche centesimo al giorno, con il rischio di subire gravi lesioni, se non addirittura di morire per estrarre il cobalto“.
Nella lettera seguono i nomi di città (Lubumbashi, Kipushi, Likasi, Kambove e Kolwezi) e villaggi in cui sono aperte 31 miniere di cobalto. Poi ci sono i numeri: “Sono almeno 35.000 i bambini che, nelle province sudorientali, lavorano nelle miniere dove si estrae cobalto”. Punta la lente su due di questi siti Kipushi e Kambove dove “4.900 adulti e 1.100 bambini si massacrano di fatica”.
L’età media dei bambini è di sei anni. Per svolgere il loro lavoro, incisione smistamento e raccolta del cobalto, i bambini vivono immersi nel sudiciume. A fine giornata portano a casa tra i 50 e gli 80 centesimi di dollaro. Per questa misera paga sono costretti a sopportare lacerazioni e ossa rotte, con danni permanenti alla salute per aver preso in mano il minerale e averne respirato la polvere tossica. Nessuno di questi bambini frequenta la scuola.
Il 2017, afferma la società di consulenza McKinsey, potrebbe passare alla storia come l’anno delle auto elettriche, vista la loro incidenza nel mercato, così capaci di risolvere il problema dell’inquinamento atmosferico, ma il prezzo più alto lo stanno pagando i più deboli.
I diritti umani
Tra gli incontri in cui si è parlato della ricchezza derivante dall’estrazione di cobalto, delle gravi violazioni di diritti umani e della mancata redistribuzione, resta traccia del summit di metà settembre a New York, World Economic Forum (Wec) sull’Impatto dello sviluppo sostenibile. In cui è stato puntato il dito alle compagnie minerarie straniere e alla catena di intermediari nella vendita del cobalto. Già un anno prima “il Wec aveva lanciato la Global Battery Alliance, un’alleanza pubblico-privato per favorire una filiera di produzione di batterie inclusiva, innovativa e sostenibile” si legge nel sito Osservatorio Diritti.
Il professore Kara si appella ai consumatori perché chiedano, pena il non acquisto del bene, che i prodotti acquistati siano tracciabili “from stone to phone” (dalla pietra al telefono), che la Repubblica Democratica del Congo crei un’entità diversa e indipendente dai minatori e dalle multinazionali, capace di garantire i diritti umani durante la catena di produzione e per ultimo chiede che l’1% dei guadagni delle compagnie coinvolte venga reinvestito nel paese africano in educazione, salute e sicurezza.