ROMA. «Il decesso è una realtà con la quale dobbiamo fare i conti», scriveva Papa Francesco in un’omelia carica di significato, diffusa durante uno dei suoi ricoveri al Policlinico Gemelli di Roma. Parole sobrie, ma potentemente umane, pronunciate non da un uomo lontano dalle tormentazioni del mondo, ma da un Pontefice che quei tormenti le ha conosciute sulla propria pelle. E che, proprio nel momento della malanni e della debolezza fisica, ha saputo indicare al mondo una via di fede, speranza e fiducia: «Il decesso non è la fine, ma un passaggio verso una nuova vita». Una riflessione maturata nel tempo, dentro un corpo segnato da una lunga serie di prove, ma anche da una fede incrollabile. Perché Jorge Mario Bergoglio ha incontrato la fragilità molto prima di indossare la veste bianca del Papa.
La sua vita, fin da giovane, è stata attraversata da episodi di grande tormento che hanno messo a rischio la sua sopravvivenza e lasciato segni profondi.Tutto iniziò nel 1957, quando Bergoglio era appena ventunenne. Studente del seminario a Buenos Aires, in Argentina, venne colpito da una grave infezione respiratoria, proprio nel mezzo di un’epidemia di influenza asiatica che aveva sconvolto l’istituto. Mentre gli altri seminaristi si riprendevano, lui peggiorava ogni giorno: febbre altissima, dolori acuti, un declino che sembrava inarrestabile. I rimedi del tempo erano pochi, semplici e inefficaci: lassativi, iodio e aspirina. Fu allora che la Provvidenza si manifestò attraverso una suora italiana, Cornelia Caraglio. Intuendo la gravità della situazione, prese una decisione rischiosa quanto decisiva: raddoppiare la dose di antibiotici prescritta dai medici. Una scelta che salvò la vita del giovane Bergoglio.
Tuttavia, l’infezione aveva già provocato danni irreversibili ai polmoni. I medici furono costretti a drenare il liquido accumulato e ad asportare una parte del polmone destro. Quell’intervento avrebbe segnato la sua salute per sempre. Da allora, il suo respiro sarebbe rimasto limitato, condizionato, vulnerabile. Ma nonostante tutto, quell’esperienza fu anche l’inizio di un cammino interiore più profondo: la consapevolezza della fragilità umana, unita alla forza della fede. A distanza di decenni, la salute di Papa Francesco è tornata più volte sotto i riflettori. Negli ultimi anni, i ricoveri presso il Policlinico Gemelli di Roma si sono moltiplicati, suscitando apprensione tra i fedeli di tutto il mondo. Il più lungo e delicato è stato quello di 37 giorni, iniziato il 14 febbraio, quando fu ricoverato d’urgenza per una polmonite bilaterale. Le notizie si rincorrevano, l’apprensione cresceva.
Nei primi giorni, le condizioni sembravano stabili, poi, il 28 febbraio, una nuova crisi: un broncospasmo improvviso mise di nuovo in pericolo la sua vita. Le voci, anche le più infondate, si moltiplicarono. Solo il 16 marzo, con la diffusione di una foto ufficiale, fu smentita ogni fake news sul suo presunto decesso. Il Pontefice, visibilmente provato ma lucido, trasmise ancora una volta la sua serenità. Il 23 marzo arrivarono le attese dimissioni: Francesco lasciava l’ospedale per tornare nella residenza di Santa Marta, ancora una volta sopravvissuto, ancora una volta testimone della resilienza dello spirito umano.A spiegare le ragioni delle frequenti infezioni polmonari è il professor Claudio Micheletto, pneumologo e presidente dell’AIPO (Associazione Italiana Pneumologi Ospedalieri). «Ogni anno in Italia ci sono circa 100.000 ricoveri per polmonite», spiega. «Ma nei soggetti anziani o immunodepressi, può diventare letale».
Con l’avanzare dell’età, infatti, il sistema immunitario perde reattività un processo noto come “senescenza immunologica” e la risposta agli agenti infettivi diventa più debole. Nel caso di Papa Francesco, la situazione è resa ancora più delicata dall’asportazione di parte del polmone destro subita in gioventù. Inoltre, le bronchiettasie dilatazioni croniche dei bronchi favoriscono l’accumulo di muco e, quindi, l’insorgenza di nuove infezioni. A tutto ciò si aggiungono eventuali comorbidità legate all’età, come problemi cardiaci o metabolici. Eppure, nonostante la lunga sequenza di ostacoli, il Papa ha continuato a esercitare il suo ministero con tenacia e dedizione. Anzi, è proprio nel malanno che Francesco ha spesso trovato nuove occasioni per testimoniare la sua fede. La sua fragilità, mai nascosta, è diventata uno dei tratti distintivi del suo pontificato. Non come debolezza, ma come autenticità.
Come esempio di come si possa guidare anche da una condizione di vulnerabilità. «Il decesso è un passaggio verso una nuova vita», ha scritto con la semplicità di chi ha sperimentato sulla propria pelle il confine tra vita e il decesso. Il suo messaggio è chiaro: non dobbiamo temere la fine, ma abbracciarla con fiducia. Una fiducia che nasce dalla fede, ma anche dall’esperienza vissuta. In un tempo in cui si tende a nascondere il malanno e lo strazio, Papa Francesco ha scelto di mostrarle. E così facendo, ha indicato al mondo un’altra via: quella dell’accoglienza della fragilità, dell’umiltà e della speranza. Un’eredità morale e spirituale che resterà ben oltre ogni difficoltà fisica.