La Corte di Appello di Milano ha confermato la condanna a 3 anni di carcere per una nonna di 53 anni, ritenuta colpevole di maltrattamenti in famiglia ai danni di suo nipote acquisito.
Il minore, 13enne all’epoca dei fatti, e la sua sorellina, erano stati affidati al nonno paterno, compagno della donna di 53 anni, poichè i suoi genitori non erano in grado di prendersi cura di loro, procurando nei bambini stati d’ansia e forti disturbi, dati i loro gravi problemi di tossicodipendenza.
L’accaduto
Il minore era costretto dalla 53enne, originaria di Cittiglio, in provincia di Varese, a stare per ore contro il muro, a mangiare cibi a lui poco graditi come la trippa, cucinata a pranzo e a cena, persino a fare docce fredde con la canna dell’acqua in giardino, se faceva pipì a letto per via dell’aria che respirava in quella casa che avrebbe dovuto rappresentare il suo rifugio ma che si è trasformata in prigione, senza mai potersi ribellare e senza poter chiedere aiuto, perchè, per tutto il giorno, il computer e il cellulare gli erano stati sequestrati.
La donna trattava con amore i suoi due figli naturali e la sorellina del 13enne, ma non lui. Il ragazzo è stato poi preso in cura dai servizi sociali e affidato a una comunità, sempre in provincia di Varese, a partire da febbraio 2016 e proprio qui, con gli educatori, si è lasciato andare, raccontando quanto ha dovuto sopportare. Da allora è partita la segnalazione all’autorità giudiziaria, l’audizione in ambiente protetto da parte della polizia giudiziaria e l’avvio del processo a Varese, finito in primo grado di giudizio, nel novembre 2019, con la condanna della donna anche al pagamento di 20 mila euro, pena appena confermata in secondo grado, oltre alle spese processuali alla parte civile rappresentata dall’avvocato Fabio Vedani per un importo complessivo di quasi 5 mila euro.
Il difensore della 53enne, l’avvocato Raffaello Boni, ha spiegato che: “La signora è stata sentita, ha parlato in aula durante l’ultima udienza in primo grado e non ha mai dato segni di pentimento perché riteneva che quanto contestatole non rappresentasse un maltrattamento, bensì un modo per cercare di rimettere sulla buona strada un ragazzo problematico”.Secondo il legale “manca la prova del reato di “maltrattamenti in famiglia“” e, a suo avviso il reato contestato rientra nel meno grave “abuso dei mezzi di correzione o di disciplina“.
Nelle azioni contestate alla sua cliente, dice, non c’era sistematicità, né continuità e per questo ha chiesto l’assoluzione, perché il fatto non sussiste. Per i giudici sia di primo che di secondo grado le punizioni erano “severe, anacronistiche, prolungate e totalmente ingiustificate”. Il giovane infatti non aveva mai avuto un atteggiamento ribelle, anzi subiva tutto senza mai opporsi fino a quando non ha trovato il coraggio di denunciare.