Ibrahim, un ragazzo senegalese di 24 anni, è giunto in Italia da poco più di un anno e, dopo aver trascorso del tempo in un centro di accoglienza, vive in strada dallo scorso inverno: ha deciso di raccontare, con sincerità, la sua storia, le promesse, gli inganni, che uomini senza scrupoli attuano per convincere i ragazzi africani a partire.
Gli imbonitori di migrazioni esortano a comprare quel biglietto verso la Libia da dove raggiungeranno direttamente l’Italia: il nostro Paese, gli dicono, regala ad ogni immigrato 30 euro al giorno, vitto, alloggio, assistenza, fino a quando avranno rilasciati i documenti ed il permesso di soggiorno per avere un lavoro, un vero lavoro. Migliaia e migliaia di africani, impossibilitati ad accedere al diritto di asilo ma solamente migranti economici in cerca di un futuro migliore, credono ciecamente a quelle parole: Ibrahim è uno dei tanti ragazzi racchiusi in sogno irrealizzabile, defraudati e traditi, bloccati in un paese che non può dare lavoro, una sosta eterna su un marciapiedi.
Ibrahim riporta che i loschi trafficanti di esseri umani parlano di un accordo tra l’Italia, che per il ragazzo significa Europa, e il suo Paese, patto in base al quale tutti i senegalesi che arrivano dalla Libia usufruiscono del benefit economico di 30 euro al giorno. Ingenuamente il ragazzo parla come se vi fosse un premio per il viaggio sostenuto, per essere sopravvissuti. Il senegalese cerca di far comprendere le motivazioni che spingono molti immigrati, stipati nelle strutture di accoglienza, a ribellarsi: l’insoddisfazione è frutto di quel favolistico accordo raccontato prima della partenza, molti si lamentano proprio perchè si sentono traditi dall’Italia non ottemperante.
Ibrahim ha pagato un biglietto per un sogno, credendo ad un accordo che non esiste. Il giovane non comprende perchè, se tale alleanza non è mai stata stipulata, l’Italia continua ad accogliere tutti coloro che si mettono in viaggio per raggiungerla: il ragazzo, con poche e semplici parole, espone una domanda collettiva che talvolta viene liquidata come mera espressione di un latente razzismo.
Ibrahim, senza volerlo, induce in un piano ordito alle nostre spalle, africane e italiane, atto a conseguire ciò che sta accadendo, per finalità ben diverse dalla solidarietà: uomini, donne e bambini muoiono ogni giorno per arrivare sulle nostre coste ed ancora continuiamo ad affermare che non possiamo bloccare l’immigrazione. Il ragazzo parla di fratelli – probabilmente complici dei trafficanti di uomini – tornati dall’Europa vestiti bene, apparentemente ricchi, il suo desiderio di partire, di cercare un futuro migliore, cresceva ogni giorno: un suo amico trasferitosi in Germania gli diceva che lo Stato gli regalava 600 euro al mese, lui in Africa lavorava per un euro l’ora.
Gli dicevano di recarsi in Italia, 30 euro al giorno, sistemazione, da mangiare, da bere, e poi anche un lavoro. Vorrebbe lavorare, ma non avendo documenti, vende libri per le strade di Milano, la polizia non lo ferma mai, la sua vita è in stallo, non sa dove andare: “La vita in strada è difficile. Mi tengo lontano dai “mori”, dai magrebini, che non hanno il mio stesso cuore. Loro ci considerano degli schiavi, il vero razzismo l’ho trovato in loro e non negli italiani che, invece, hanno sempre un gesto gentile nei miei confronti. Io sono un bravo ragazzo e ma tanti altri non sono come me e la vita in strada li peggiora. Accogliere queste persone e non controllarle è un pericolo”.
Il giovane senegalese è convinto che il problema immigrazione in Italia sia divenuto insostenibile, l’Italia dovrebbe far cessare gli arrivi, bloccando il racket di quegli individui che si arricchiscono sulla pelle dei poveretti. Dice che lo Stato italiano ha dimostrato, anche all’estero, la propria incapacità di chiarezza: “Non abbiamo mai visto atterrare in Senegal voli di Stato italiani carichi di nostri connazionali rimpatriati. Abbiamo visto sulla tv nazionale scendere dagli aerei tedeschi numerosissimi senegalesi rimandati in patria. Questo ci ha fatto capire che l’Italia non solo accoglie tutti, ma non ci rispedisce a casa. Un motivo in più per partire”.