Aveva sfidato la ‘ndrangheta, ed è stato crivellato di colpi di pistola. A nulla è valsa la folle corsa verso l’ospedale più vicino: Domenico Bevilacqua è morto sul suo lettino, a Catanzaro, dopo che i medici avevano fatto tutto il possibile per provare a salvarlo. Una missione persa in partenza: le sue condizioni, quand’era giunto all’interno della struttura ospedaliera, erano già troppo gravi. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la vicenda non riguarda un incorruttibile magistrato, o un commerciante coraggioso, ma un cittadino Rom.
O meglio, del Rom per eccellenza, se si parla di Catanzaro. Perché Domenico Bevilacqua, aka Toro Seduto, era uno dei più noti ed importanti capi della comunità nomade locale, ed aveva alle spalle lunghi trascorsi di lotta contro i clan della ‘ndrangheta per il controllo del territorio. Un conflitto che l’uomo non aveva mai voluto abbandonare; nemmeno dopo l’attentato del 2005, quando fu raggiunto al viso da una raffica di colpi di fucile, rimanendo sfigurato a vita.
Era troppo orgoglioso, Toro Seduto, per pensare di poter cedere ai clan del crimine organizzato. Ma alla fine, ha pagato la sua ambizione con la vita. Domenico, ad ogni modo, era tutt’altro che uno stinco di santo: il suo clan poteva infatti contare diversi esponenti della criminalità arrivati dall’Est Europa, e gestiva un racket di spaccio di droga, strozzinaggio ed estorsioni, che inizialmente era stato persino avallato dalla stessa ‘ndrangheta locale.
Insomma, fino a quando i Rom fossero rimasti confinati a praticare le attività illecite a Sud di Catanzaro, non ci sarebbero stati conflitti. Ma il sogno di Toro Seduto era quello di mettersi in proprio, e concorrere con i clan locali per diventare la prima forza della provincia. Per questo aveva trasformato i quartieri ad egli concessi in vere e proprie roccaforti, impenetrabili persino per gli agenti di polizia. Ma dove non era mai riuscito ad arrivare il braccio della Legge, alla fine è giunto quello della ‘ndrangheta.
Così Toro Seduto è stato ammazzato proprio all’interno di una di quelle “roccaforti inespugnabili” che aveva realizzato per muovere guerra al crimine organizzato autoctono. “Ferite da arma da fuoco”, la causa del decesso del 54enne che aveva sognato di rendersi indipendente dal clan degli Arena, ed iniziare la “propria” attività senza dover sottostare ad alcun padrone.