Il 30 gennaio 1992, nel maxi-processo di Palermo, vennero condannati all’ergastolo diversi esponenti di Cosa Nostra. La reazione della mafia arrivò pochi mesi dopo, in seguito ad accurata pianificazione.
Sabato 23 maggio 1992 ore 17:56, 500 chilogrammi di nitrato d’ammonio, tritolo e T4 (ciclotrimetilentrinitroammina), fecero esplodere tre auto blindate sulle quali viaggiavano il giudice Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo, deceduti insieme a tre uomini della scorta (Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani).
Giovanni Brusca, prima organizzatore ed esecutore della strage di Capaci, poi collaboratore di giustizia, dichiarò che Giovanni Falcone era obiettivo della mafia già da diversi anni, precisamente da quando fu costituita la squadra di magistrati che istruì il maxi-processo.
Fu Salvatore Riina, capo assoluto della mafia, attorniato dai suoi fedelissimi (Leoluca Bagarella, Matteo Messina Denaro, Giovanni Brusca, Nino Gioè e Gioacchino La Barbera) a decidere di compiere l’attentato; questo e diversi altri caratterizzarono il famoso periodo tra il 1992 e il 1993 conosciuto come la stagione delle stragi.
30 anni dopo Capaci, Maria Falcone (sorella del giudice Giovanni Falcone) racconta di aver ricevuto, quel giorno, una telefonata un pò strana da un’amica e, dopo aver acceso la televisione, scappò in Ospedale dove ricevette la conferma della triste notizia da Paolo Borsellino, altro giudice simbolo della lotta alla mafia.
La sorella del magistrato non si rifugiò nella vita privata, ma si impegnò subito come attivista. Creò il 10 dicembre dello stesso anno, una fondazione che potesse custodire la memoria del lavoro del fratello e che esiste tuttora per promuovere una cultura della legalità, soprattutto nei giovani ai quali racconta spesso l’esempio del fratello.
“Non dobbiamo mai distrarci perchè la mafia ha la capacità di riprendersi quel che le abbiamo tolto. Ma sono convinta che non abbia vinto e che il lavoro di Giovanni non sia stato vano“, queste le parole di Maria Falcone.