Qualsiasi sia l’epilogo giudiziario, il caso resterà per sempre associato all’immagine di una vecchia roulotte, rovente d’estate e gelida d’inverno, diventata la casa di un migrante che ha vissuto e lavorato nell’azienda agricola teramana di Sant’Atto. A raccontare la vicenda, in aula, è stato il padre di Marco Di Francesco, 25 anni, l’imprenditore agricolo accusato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, imputato insieme alla madre Nicoletta Di Fabio, 50 anni, titolare dell’azienda ma con un altro impiego.
Preferiva la roulotte
Secondo il padre dell’imputato, citato come testimone dalla difesa, il migrante aveva rifiutato un alloggio più confortevole. “Mio figlio gli aveva offerto un appartamento al piano terra dello stabile in cui abitiamo, ma lui ha preferito la roulotte,” ha dichiarato. “Lo trattavamo come uno di famiglia. Veniva da noi per fare la doccia, per mangiare e partecipava alle feste di famiglia. Era con noi anche per il mio 50esimo compleanno.
La denuncia del migrante e l’avvio delle indagini
La versione del padre contrasta con quanto emerso dalle indagini, avviate dai carabinieri del Nil (Nucleo Ispettorato del Lavoro) a seguito della denuncia del lavoratore. Il migrante, giunto in Italia da clandestino, ha raccontato di aver risposto a un annuncio su Facebook che prometteva un salario, vitto e alloggio in cambio della gestione degli animali e della sorveglianza notturna della stalla. Secondo l’accusa, per oltre un anno, l’uomo ha lavorato 15 ore al giorno, dormendo in una roulotte senza corrente elettrica né servizi igienici, e ricevendo appena 500 euro al mese. A giugno scorso, stremato dalle condizioni, ha deciso di denunciare la situazione, portando all’arresto del giovane imprenditore (ora ai domiciliari).
Il racconto del migrante e il processo
Nel corso dell’incidente probatorio, il migrante ha confermato la sua versione, descrivendo una routine di lavoro al limite dell’umano. Attualmente è ospite di una comunità protetta, dove ha trovato assistenza e tutela. La prossima udienza del processo, che si svolge davanti alla giudice monocratica Claudia Di Valerio, è fissata per marzo. Gli avvocati della difesa, Lidia Serroni e Franco Patella, puntano a dimostrare che il rapporto tra l’imprenditore e il lavoratore fosse consensuale e basato su accordi chiari. Tuttavia, l’accusa sostiene che il migrante fosse costretto a condizioni di vita e lavoro degradanti, violando contratti nazionali e norme sulla sicurezza.
Un simbolo dello sfruttamento lavorativo
Il caso di Sant’Atto è diventato emblematico del problema del caporalato e dello sfruttamento dei lavoratori vulnerabili, in particolare migranti senza permesso di soggiorno. Le associazioni per i diritti dei lavoratori sottolineano l’importanza di denunciare situazioni simili, affinché casi come questo non vengano normalizzati.