Eutanasia. Davide Trentini, 53enne di Massa, da trent’anni malato di sclerosi multipla, il 13 aprile del 2017 optò per il ricorso al suicidio assistito a Zurigo, possibile in Svizzera, e venne aiutato dalla signora Welby che lo accompagnò e da Marco Cappato che sostenne economicamente il desiderio di Davide, raccogliendo fondi attraverso l’associazione Soccorso Civile.
Welby e Cappato, il giorno dopo la morte di Trentini, si autodenunciarono. Venne richiesta una pena a 3 anni e 4 mesi di carcere con le attenuanti perché la Corte di Assise a Massa credeva nei loro nobili scopi: il pm Marco Mansi accusava apertamente i due, ma li riteneva meritevoli di tutte le possibili attenuanti per il gesto compiuto.
Mina Welby e Marco Cappato sono stati assolti dalla corte di assise di Massa, perché il fatto non sussiste, dall’accusa di aiuto al suicidio per la morte di Davide Trentini. Secondo Filomena Gallo, del collegio difensivo di Welby e Cappato, i giudici di Massa hanno riconosciuto non solo che nel caso Trentini non sussiste l’istigazione al suicidio ma anche che l’aiuto al suicidio non costituisce reato.
“La Corte d’Assise ha dunque equiparato i trattamenti di sostegno vitali delle macchine a quelli dei farmaci“, motiva l’avvocato Gallo. Davide Trentini non era collegato a macchine ma era tenuto in vita con indicibili tormenti da cure farmacologiche. Il pm, prima della requisitoria, aveva chiesto una nuova perizia per dimostrare che Trentini riceveva quotidianamente trattamenti di sostegno vitale, equiparabili alle macchine per la respirazione. Ma la corte ha respinto la richiesta.
La madre di Trentini era a favore dell’eutanasia, stanca delle atroci sofferenze subite dal figlio, affermando che lo aveva fatto per lui come atto di amore e liberazione nei suoi confronti e aveva apertamente ringraziato la Welby e Coppato. Continua dicendo che il figlio amava la vita e che era stato un percorso atroce, ma che lo faceva proprio per tutti coloro che subivano gli stessi trattamenti.