Denunciare l’Isis in Turchia, al giorno d’oggi, equivale pressappoco a firmare la propria condanna a morte. Ne sanno qualcosa Ibrahim Abd al Qader e Fares Hamadi, gli ultimi due “martiri” della lotta al terrorismo, torturati a morte dai miliziani dell’Isis a causa del loro blog. Teatro del bagno di sangue è stato il loro appartamento di Urfa, distante circa una cinquantina di chilometri dal famigerato confine con la Siria.
Ibrahim e Fares erano attivisti per i diritti umani, redattori del blog “Raqqa è massacrata lentamente”, un portale di aperta denuncia contro le violenze dello Stato Islamico in Siria. E di quei terribili bagni di sangue, i due ragazzi avevano già avuto molto più che un assaggio. Nel corso di un’intervista rilasciata all’emittente NBC, Ibrahim aveva raccontato di essere stato arrestato e torturato dai boia dell’Isis nel suo Paese natale.
Violenze terribili, che durarono per diverse settimane. L’attivista riuscì a fuggire in Turchia, e forse fu proprio questa la sua unica colpa: il ritenersi al sicuro in un Paese di fatto gemellato con lo Stato Islamico. Solo qualche mese fa Can Dundar, direttore del quotidiano turco Cumhuriyet, finì nei guai per aver rivelato al mondo una scottante verità: dalla Turchia partivano convogli verso la Siria, scortati dal Mit e fatti passare dal Governo come “aiuti umanitari“.
In realtà, quei camion contenevano armi ed equipaggiamento tattico destinati ai combattenti dell’Isis. L’inchiesta risale al 2014, ma Can Dundar volle sfidare Erdogan e pubblicare tutto il materiale a sua disposizione riguardante i traffici-ombra fra Turchia e Stato Islamico.
Questo nonostante il Premier turco avesse già fatto arrestare più di 40 giornalisti “scomodi” con accuse fittizie nei mesi precedenti. L’atto di coraggio di Can, come prevedibile, gli è costato caro: incarcerato con l’accusa di spionaggio, per lui è stato chiesto l’ergastolo. E qualcuno in patria aveva persino ventilato l’idea della pena di morte.
Peggio è andata a Jackie Sutton, ex giornalista della BBC nonché presidente dell’IWPR (Institute for War and Peace Reporting), imbarcatasi da Londra e diretta in Iraq per un reportage sulla condizione delle donne nello Stato Islamico. Fatale le fu proprio lo scalo ad Istanbul: venne trovata impiccata lo scorso 19 Ottobre in un bagno dell’aeroporto Ataturk. La versione della polizia turca è la seguente: la Sutton non aveva i soldi per imbarcarsi per l’Iraq, ha avuto un crollo nervoso e si è impiccata.
Peccato che nel portafogli della donna siano stati rinvenuti circa 2.300 euro, oltre a diverse carte di credito. Jackie Sutton era particolarmente vicina alla questione Turchia-Kurdistan; vicina all’incubo di quei curdi che Recep Yayyip Erdogan ritiene bersagli prioritari per i bombardamenti rispetto ai miliziani dell’Isis, con i quali invece intrattiene floridi rapporti commerciari nella più totale illegalità ed impunità. Mentre l’Unione Europea si volta opportunamente dall’altra parte.
Esattamente un anno prima, il 19 Ottobre 2014, Serena Shim morì in seguito ad un incidente d’auto avvenuto in circostanze mai chiarite. La Shim, reporter americana di origini libanesi, aveva 29 anni, ed aveva condotto un’inchiesta riguardante l’infiltrazione in Turchia da parte di miliziani dell’Isis agevolata dallo stesso governo locale, che li nascondeva all’interno di camion di “aiuti umanitari” di ritorno dalle zone di guerra.
Pochi giorni prima della fatale collisione, Serena aveva rivelato ad amici e colleghi di essere seguita, ed essere stata bollata dai servizi segreti turchi come “spia”. Ed ora è stato il turno di Ibrahim Abd al Qader e Fares Hamadi, torturati ed uccisi nella loro abitazione per avere denunciato le violenze dell’Isis. Tutto ciò mentre la Magistratura turca ha imposto ai media il divieto assoluto di pubblicare notizie riguardanti le indagini sulla strage di Ankara dello scorso 10 Ottobre, costata la vita a 106 persone.
“E’ altamente improbabile che un bando assoluto su tutte le notizie e commenti critici possa essere compatibile con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo” ha tuonato Aykan Erdemir, della Foundation for Defence of Democracies di Washington. Un appello destinato a rimanere inascoltato: le priorità della volubile opinione pubblica, al momento, sono altre.
Così, mentre scorrono come fiumi articoli ed approfondimenti su profughi ed immigrati, dietro le quinte l’asse Istanbul-Raqqa (alla stregua d’un Roma-Berlino d’altri tempi) è più florido che mai. E sulle morti di Ibrahim, Fares, Jackie, Serena e tutti gli altri, l’ombra dell’omicidio di Stato è sempre più palpabile; sullo sfondo di un Paese oramai divenuto la prima, vera roccaforte dell’Isis in Occidente. Grazie alla guida del redivivo Premier Erdogan, ed alla frustrante e colpevole connivenza delle potenze occidentali.