Uno studio italiano trova il fondamento scientifico dell’iperattività

Secondo uno studio italiano, l'iperattività potrebbe essere causata dalla mancanza di un enzima nel cervello. Se verrà confermato, potrebbe anche essere possibile trovare una cura

Uno studio italiano trova il fondamento scientifico dell’iperattività

Un gruppo di ricercatori, guidato da Daniela Carnevale, ha trovato la potenziale causa dell’iperattività, aprendo la strada a possibili cure. La cosa che più sorprende è che lo ha fatto quasi per errore. Infatti, la Dott.ssa Carnevale e i suoi colleghi stavano conducendo in realtà uno studio volto a comprendere la funzione dell’enzima PI3K nel sistema cardiovascolare dei topi. Tutt’altro campo, quindi. E allora come possono aver trovato la causa, e forse anche la soluzione, dell’iperattività?

Ebbene, durante le loro sperimentazioni, i ricercatori hanno notato che i topi privi di questo enzima, oltre a manifestare ipertensione, mostravano anche dei comportamenti insoliti: si muovevano in modo frenetico, non riuscivano più a concentrarsi o ad apprendere, e avevano problemi a socializzare. Insomma, mostravano tutti i sintomi tipici del disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività (DDAI).

Non appena hanno notato questa ‘coincidenza’, gli scienziati hanno convogliato i propri sforzi verso ben altra direzione, concentrandosi stavolta sul ruolo dell’enzima PI3K nel sistema nervoso. Si è quindi scoperto che esso va a regolare e limitare l’azione di un’area del cervello (locus ceruleus) responsabile del mantenimento dell’attenzione. Una carenza o mancanza di questo enzima provoca pertanto un’eccessiva attività di questa zona, dando luogo al DDAI.

Una scoperta, quindi, tanto inaspettata quanto sensazionale, che ha risvegliato la speranza e l’ottimismo della comunità scientifica e non. E’ vero che bisogna ancora frenare l’entusiasmo, dal momento che per adesso lo studio, essendo stato condotto soltanto sui topi, è ancora da confermare, ma se i risultati verranno convalidati potrà anche aprirsi la strada verso la scoperta di una possibile cura.

Restiamo quindi in attesa di ulteriori e più approfonditi studi, sperando in un risvolto positivo che possa andare così a migliorare la vita di quel 7% della popolazione infantile e 4% della popolazione adulta che ne soffrono e che tutt’oggi non stanno ricevendo trattamento, con conseguenze talvolta anche gravi, non solo a livello di salute, poiché la maggior parte degli affetti da DDAI sviluppa anche altri disturbi in comorbidità (disturbi dell’apprendimento, depressione, uso/abuso di sostanza. ecc…), ma anche a livello economico, dati i costi derivanti dalla ricerca di trattamenti e dal mantenimento degli individui colpiti, e sociale, che vede i soggetti affetti avere difficoltà ad integrarsi e a condurre una vita socio-lavorativa normale.

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