Sanità, nel sud Italia la salute non è più un diritto

L'Italia sta vivendo una crisi nel suo sistema sanitario, con una crescente frattura tra le regioni settentrionali e meridionali. La sanità pubblica è afflitta da tagli finanziari e carenze di personale, portando a tempi di attesa insostenibili.

Sanità, nel sud Italia la salute non è più un diritto

Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, ha lanciato un grido d’allarme durante la presentazione del 6° rapporto sul Servizio Sanitario Nazionale: stiamo assistendo a un inesorabile scivolamento dal concetto di un Servizio Sanitario Nazionale basato sulla tutela di un diritto costituzionale a una frammentazione in 21 sistemi sanitari regionali regolati dalle leggi del libero mercato. La questione diventa ancora più urgente in vista dell’autonomia differenziata, che potrebbe normativamente legittimare la frattura strutturale tra Nord e Sud del paese.

La crisi della sanità pubblica in Italia è evidente e allarmante. La disparità tra il Nord e il Sud del paese è drammatica, con tempi di attesa per visite e accertamenti diagnostici che sembrano infiniti, tagli alla spesa sempre più consistenti e una cronica carenza di personale. Inoltre, nel corso degli anni, la sanità pubblica ha subito tagli finanziari significativi, mettendo a repentaglio la qualità dell’assistenza sanitaria.

Nel complesso, sono stati sottratti oltre 37 miliardi di euro alla sanità pubblica negli ultimi anni. Circa 25 miliardi sono stati tagliati nel quinquennio 2010-2015 come parte delle manovre di risanamento finanziario, mentre oltre 12 miliardi sono stati tolti nel periodo 2015-2019 attraverso il cosiddetto “definanziamento,” che ha assegnato risorse inferiori ai livelli previsti. In pratica, i finanziamenti destinati alla sanità sono cresciuti solo dello 0,9% all’anno, un tasso inferiore all’inflazione annua (1,15%).

Questo ha comportato un allontanamento dell’Italia dagli standard europei e dai paesi più avanzati. Mentre nel 2008 la spesa pubblica pro capite italiana era simile a quella degli altri paesi europei, oggi la nostra spesa è inferiore di quasi 1000 euro a persona. Nel periodo 2010-2022, la spesa sanitaria pubblica italiana è stata inferiore di 345 miliardi di euro rispetto alla media europea, il che si traduce in una carenza di risorse, personale insufficiente e tempi di attesa lunghi per i servizi sanitari. Questa situazione ha spinto molti cittadini a rivolgersi al settore privato per ottenere cure mediche, contribuendo a una crescente medicalizzazione del sistema.

Nel 2022, gli italiani hanno speso oltre 37 miliardi di euro per servizi sanitari privati, una cifra che si discosta notevolmente dagli standard europei. Questo allontanamento dal modello di sanità pubblica universale europeo ci avvicina sempre di più a un modello di tipo “americano,” in cui l’accesso ai servizi sanitari è spesso determinato dalla capacità di pagamento. I tempi di attesa e la carenza di risorse influiscono pesantemente sulla salute dei cittadini, spingendo chi può permetterselo a rivolgersi al settore privato o alle visite in intramoenia negli ospedali pubblici.

Tuttavia, milioni di italiani non hanno questa opzione e spesso rinunciano a ricevere le cure di cui hanno bisogno, creando una situazione critica. La situazione è particolarmente grave al Sud, dove si verifica una massiccia migrazione verso il Nord per ricevere cure mediche. Questo divario è evidente nella distribuzione delle prestazioni LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) nelle diverse regioni. Nel 2021, solo tre regioni del Sud erano riuscite a rispettarli, mentre le altre regioni del Nord avevano risultati migliori.

Il pericolo di ulteriore allargamento della frattura tra Nord e Sud è evidente con la paventata riforma dell’autonomia differenziata promossa dal governo. Questa riforma potrebbe dare alle regioni il controllo sulla retribuzione e sul reclutamento del personale sanitario, sulle scuole di specializzazione dei medici, sugli accordi con il settore privato e persino sulle forme di sanità integrative. Questa dinamica potrebbe aggravare ulteriormente la frattura sanitaria nel nostro Paese.

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