L’Islanda, tra tutti i Paesi europei, è quello che vede un minor numero di nascite di bambini con la sindrome di Down. La percentuale di abitanti senza trisomia 21 (o, appunto, sindrome di Down) è prossima al 100% (la popolazione islandese conta circa 335 mila abitanti). Ad oggi qui infatti solo 1 o 2 bambini all’anno vengono al mondo affette da questa condizione.
La motivazione, più che genetica, sta nel fatto che sempre più genitori islandesi scelgono di sottoporre il feto ai test prenatali nelle prime settimane di gravidanza e di interrompere la gestazione in caso di screening positivo alla sindrome di Down (la legge in Islanda consente l’aborto anche dopo sedici settimane in caso di anomalie nel feto). In particolare questi risultati, presentati da Peter McParland, durante una conferenza al National Maternity Hospital, si devono all’avvento dei “Nipt”, test prenatali simili ad una amniocentesi invasiva e indolore, che vanno alla ricerca delle disabilità in una goccia di sangue.
Un altro fattore decisivo poi, come specificato dall’ospedale dell’università Landspitali di Reykjavik, in cui nasce il 70% di tutti i bambini dell’isola, è anche l’accuratezza dei test, che si attesta intorno all’85%.
Kari Stefansson, fondatore della deCODE Genetics, società che ha analizzato quasi tutti i genomi della popolazione islandese, ha dichiarato: “Non c’è niente di male nell’aspirare ad avere figli sani, ma è difficile decidere quanto in là ci si debba spingere nell’inseguire questo obiettivo”. La notizia arrivata dall’Islanda ha infatti già suscitato un grande dibattito etico. In molti infatti vedono la mancata nascita di bambini Down come frutto di un’imposizione dello Stato, e non tanto di scelte libere e individuali.
La diminuzione dei casi di sindrome di Down è un fenomeno che in realtà non riguarda solo l’Islanda, ma, seppur in misura inferiore, anche Svezia, Novergia, Svizzera, Olanda e Spagna, dove negli ultimi 25 anni il numero di portatori della sindrome è sceso del 50%.