Sarà capitato a tutti sul luogo di lavoro di incontrare prima o poi il “Fantozzi” di turno, magari riconoscendolo nel vicino di scrivania, in un soggetto vessato dai capi, preso in giro dai colleghi, isolato, se non addirittura escluso, dal gruppo. Non solo un personaggio di fantasia magnificamente interpretato dall’attore Paolo Villaggio, quella del dipendente “capro espiatorio” è al contrario una figura nota alla scienza moderna. Tra i vari studi che se ne interessano, quello sul mobbing e bossing, un fenomeno serio con conseguenze anche molto pericolose per l’individuo.
Da una ricerca condotta da Gianfranco Tomei, del Dipartimento di Neurologia e Psichiatria dell’Università La Sapienza di Roma, all’origine ci sono ben cinque modalità di organizzazione nevrotica, disfunzionale e malsana del lavoro. Cercare un capro espiatorio, spiega Tomei, “è una dinamica molto comune all’interno dei gruppi, in special modo quelli di lavoro”. La vittima di turno è spesso un soggetto debole, su cui si scarica la responsabilità, gli errori e gli eventi negativi; ne subisce le conseguenze e ne espia le colpe. Continua l’esperto: “La psicoanalisi si è interessata alla figura del capro espiatorio per analizzare i meccanismi nascosti e inconsci che entrano in gioco quando in un gruppo si identifica una vittima designata. Attraverso questa tipica modalità di pensiero magico, ovvero irrazionale e priva di basi ragionevoli, la crescita del gruppo è garantita dall’allontanamento di quella che è percepita quale fonte di energia negativa e disturbante”.
Il contesto del gruppo è fondamentale, rappresenta infatti organizzazioni dove lo stretto contatto di lavoratori insieme allo stress possono essere un fattore determinante, generando così facilmente i Fantozzi della situazione. Tra le maggiori fonti di stress si ritrovano le condizioni fisiche come rumorosità, illuminazione e igiene ambientale, quelle organizzative come ad esempio un eccesso di lavoro o ancora i tempi ristretti, l’ambiguità o il conflitto di ruolo, molto spesso anche la difficoltà nei rapporti con i capi.
Ma quale soluzione si può adottare? Cosa fare per migliorare il funzionamento di un gruppo di lavoro? Si legge nello studio di Tomei: “il leader dovrebbe monitorare costantemente lo stato di tensioni, anche profonde e inconsce, che percorrono il gruppo, per evitare che all’interno di esso si generi questo fenomeno”. Il ruolo del leader è fondamentale, è lui che dovrebbe “gestire l’aggressività che circola fra i membri del gruppo in modo tale che sia incanalata, non si propaghi indisciplinatamente e senza controllo. In questo modo l’aggressività, che costituisce un elemento molto pericoloso e che se lasciata circolare liberamente provoca gravi danni, diventa invece un collante utilizzato come forza motrice per raggiungere i risultati prefissati“.