Ancora pochi giorni e anche per il riso e il grano avremo l’etichetta di origine. In altre parole, così come già avviene per il latte e i prodotti caseari, potremo in qualsiasi momento venire a conoscenza della provenienza di questi alimenti.
A prevederlo troviamo due decreti nazionali emanati lo scorso luglio dal Ministero dell’Agricoltura e dal Ministero dello Sviluppo Economico. A volerli fortemente era stata la Coldiretti, che aveva più volte fatto richiesta di legiferare in merito. Una battaglia che a questo punto si può dire vinta, a tutto vantaggio dei consumatori.
Ma c’è un ma. È infatti in arrivo un Regolamento esecutivo della Commissione Europea, che di fatto farà piazza pulita dei decreti nazionali. Come ben sappiamo, i regolamenti comunitari prevalgono sulle norme dei singoli stati membri. Il provvedimento, ancora in fase di studio ma che dovrebbe entrare in vigore ad aprile 2019, così come ora concepito andrebbe a rimescolare non di poco le carte.
Ma quali sarebbero le intenzioni del legislatore comunitario? Il tema principale rimane quello dell’ingrediente principale, la cui origine dovrà essere indicata solo se diversa da quella del prodotto finito. In altre parole se la pasta lavorata in Italia contenesse del grano canadese, questo dettaglio dovrebbe essere per forza di cose segnalato. Stesso discorso per un salume prodotto in Italia con carne francese.
Detto così saremmo propensi a credere che non esistono differenze tra la legge nazionale e quella comunitaria. Invece esisterebbe un abisso legato alla questione delle indicazioni geografiche protette e note con le sigle Dop e Igp. Su quest’ultime non sarebbe previsto alcun obbligo di indicazione di origine. Stesso dicasi nel caso in cui si faccia uso di marchi registrati, di parole o segni che già di per sé sono sinonimo della provenienza dell’alimento. Il che vuol dire aprire la porta ai tarocchi dal nome italianeggiante o la cui confezione riporta in maniera fraudolenta una bandiera italiana.
Cosa comporterà tutto ciò? In primo luogo un problema per i produttori che saranno costretti a cambiare due volte il packaging nel giro di un anno. In secondo luogo i consumatori potrebbero essere indotti in errore. Siamo quindi di fronte ad un paradosso al quale si spera che le istituzioni comunitarie riusciranno a porre rimedio.