Individuato il batterio “mangia” plastica

Un gruppo di ricercatori ha di recente individuato un tipo di batterio, la Ideonella sakainesis 201-F6, che si nutre di plastica e che quindi potrebbe risolvere il problema dell’accumulo di plastica.

Individuato il batterio “mangia” plastica

Nel mondo ogni anno vengono prodotti oltre 311 milioni di tonnellate di plastica, di cui solo il 14% viene riciclato. Inoltre, di questi 311 milioni di tonnellate di plastica, circa 10 milioni finiscono nei mari e negli oceani. Uno scenario che, secondo la Sea Education Association, è destinato a peggiorare: nel 2025, se non si provvederà ad un miglioramento nello smaltimento dei rifiuti, la quantità di plastica nei nostri mari potrebbe aumentare di circa dieci volte.

Un team di ricercatori del Kyoto Institute of Technology e della Keio University, coordinati da Shosuke Yoshida, sembrerebbe però aver trovato una soluzione al problema. Infatti il gruppo di ricercatori in questione ha identificato un batterio che si nutre di plastica.

Per arrivare a questa straordinaria scoperta, sono stati raccolti 250 campioni contaminati dal PET, tra cui sedimenti, terra e acque reflue provenienti da un sito di riciclaggio delle bottiglia di plastica e, successivamente, sono stati analizzati i microbi presenti in questi campioni per vedere se qualcuno di loro utilizzava la plastica come fonte di cibo. Alla fine è stata individuata una specie di batteri responsabile della degradazione del PET: la Ideonella sakainesis 201-F6, in grado di rompere, attraverso l’utilizzo di due enzimi chiave, i legami molecolari del polietilene tereftalato (PET) e di trasformarlo in un’altra sostanza chiamata MHET. Andando nel dettaglio, l’enzima ISF6_4831 lavora con l’acqua per disintegrare il Pet in sostanze intermedie, che vengono poi ulteriormente scomposte dall’altro enzima, ISF6_0224.

Purtroppo però il processo non è dei più facili, se si considera che potrebbero volerci anche sei settimane per degradare un sottile film di PET in questo modo e che è necessario mantenere la temperatura costante a 30 gradi centigradi.

Come spiega Uwe T. Bornscheuer, con un suo editoriale sulla rivista “Science”, “la scoperta potrebbe avere delle implicazioni molto importanti per il riciclo delle plastiche, così come per lo studio dei principi dell’evoluzione degli enzimi”.

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