Un laboratorio per giovanissimi transgender all’Università Roma Tre

Alcune settimane fa, la decisione dell’Università Roma Tre di istituire un laboratorio per bambini "trans e gender creative" tra i 5 e i 14 anni ha scatenato un acceso dibattito e una interrogazione da parte del Ministro dell’Istruzione e del Merito.

Un laboratorio per giovanissimi transgender all’Università Roma Tre

L’Ateneo ha precisato che questo laboratorio, gestito da un team di ricercatori e una insegnante montessoriana, è stato creato con l’obiettivo di ascoltare e raccogliere le storie personali di questi giovanissimi, permettendo loro di esprimere le proprie esperienze e i significati attribuiti alla loro “identità di genere non normativa”, ponendo particolare attenzione alle loro esperienze di rottura rispetto alle norme sociali di genere e ai fattori che, dal loro punto di vista, possono aumentare o mitigare la discriminazione e il mancato riconoscimento.

Questo progetto, tuttavia, ha sollevato molte domande, prima fra tutte: cosa significa “minori con identità di genere non normativa”? E su quali basi si può diagnosticare la “disforia di genere” in bambini così piccoli, la cui consapevolezza di appartenere a un genere specifico non può basarsi su una piena comprensione della biologia? L’identità di genere nei bambini è infatti fortemente influenzata dagli adulti che li circondano—genitori e insegnanti—i quali spesso orientano i minori verso attività, comportamenti e scelte di abbigliamento che ritengono appropriate al loro genere biologico.

Una delle frasi più comuni nel dibattito attuale è che “i sessi sono due, ma i generi sono infiniti”, sottolineando come il concetto di “genere” sia considerato una costruzione sociale, piuttosto che una realtà biologica. La sensazione prevalente è che ciò che oggi viene chiamato “genere” si riferisca in gran parte a tratti caratteriali e comportamentali che sono stati culturalmente definiti come “maschili” o “femminili”. Questi tratti, tuttavia, sono chiaramente costruzioni sociali che variano a seconda della cultura e del periodo storico. Gli stereotipi di genere, che assegnano ruoli e caratteristiche a seconda del sesso biologico, sono sempre esistiti e continuano a influenzare le aspettative sociali. In questo senso, se questi stereotipi definiscono cosa significhi essere “maschi” o “femmine”, ogni individuo, in effetti, potrebbe essere definito “non-binario”, dato che nessuno incarna esclusivamente tratti considerati “maschili” o “femminili” in maniera rigida.

Proprio in questa ambiguità si radica la complessità del fenomeno e la difficoltà che molti incontrano nell’interpretarlo. La definizione di “identità di genere non normativa” sembra basarsi sugli stessi stereotipi che cerca di abbattere. Si potrebbe infatti sostenere che anziché smantellare tali stereotipi, il discorso attorno al genere “fluido” o “creativo” li rafforzi, creando una nuova categorizzazione di individui che, per loro natura, sfuggono alle definizioni tradizionali di maschi e femmine. Tuttavia, la categorizzazione stessa comporta un ulteriore livello di etichettamento che rischia di ricondurre le identità di genere a una nuova serie di aspettative sociali.Il dibattito attorno alla diagnosi di disforia di genere nei minori aggiunge un ulteriore livello di complessità.

La disforia di genere, secondo la definizione medica, è una condizione di disagio che una persona prova quando il proprio genere assegnato alla nascita non corrisponde alla propria identità di genere. Tuttavia, diagnosticare tale condizione in un bambino è una sfida considerevole, poiché la consapevolezza del genere si sviluppa nel tempo e viene plasmata da molteplici fattori: familiari, culturali, scolastici e psicologici. Questo solleva interrogativi sulla capacità dei bambini di comprendere appieno la loro identità di genere e sulla responsabilità degli adulti di interpretarli e supportarli in questo percorso senza forzarne le scelte.

Infine, ’idea che il “genere” sia una costruzione sociale solleva una questione centrale: se i comportamenti e le espressioni di genere sono in gran parte modellati da norme sociali e culturali, è giusto promuovere l’idea che esista un’infinità di identità di genere? E soprattutto, quanto di questa fluidità di genere è il risultato di una reale esperienza personale e quanto invece è una reazione alle pressioni sociali e culturali? Questi sono interrogativi che la ricerca dell’Università Roma Tre dovrebbe proporsi di esplorare, con l’obiettivo di ampliare la comprensione del fenomeno senza imporre definizioni rigide o preconcette.

Negli ultimi anni, si è assistito a un notevole aumento di bambini e adolescenti negli Stati Uniti e in Inghilterra che non si identificano con il proprio sesso biologico, e questo fenomeno ha assunto proporzioni allarmanti. La clinica londinese Gender Identity Development Service, nata per trattare la cosiddetta disforia di genere, sostiene che una cinquantina di bambini e pre-adolescenti varcherebbe la loro porta ogni settimana. Prima che il bambino entri nella pubertà, la clinica propone di prescrivere dei bloccanti ormonali. In tal modo il minore non diventerà né maschio né femmina, ma rimarrà parcheggiato in un limbo in attesa che decida a quale genere vorrà appartenere. Compiuti i 16 anni il bambino, se lo vuole, può assumere estrogeni per femminilizzarsi e la bambina testosterone per mascolinizzarsi.Una delle principali preoccupazioni deriva dal fatto che in molti Paesi le leggi consentono ai minori di intraprendere la transizione di genere, anche attraverso interventi chirurgici e terapie ormonali, in età molto giovane. Queste decisioni sollevano forti perplessità, poiché si tratta di scelte irreversibili con conseguenze a lungo termine. Per esempio, ragazze di sedici anni possono sottoporsi alla mastectomia, mentre i ragazzi possono affrontare l’asportazione del pene, rimpiazzato poi da una cavità vaginale artificiale.

Un aspetto che sta emergendo con forza è la crescente testimonianza di giovani che, una volta raggiunta la maggiore età, si pentono della transizione intrapresa e si definiscono “detransitioners”. Questi giovani si trovano ad affrontare il rimpianto di scelte fatte durante l’adolescenza, quando forse non erano in grado di comprendere appieno la portata delle decisioni prese. Ciò che colpisce, ascoltando le loro storie, è la similitudine dei percorsi che li hanno condotti alla transizione. Molti raccontano di essere stati considerati “trans” in tenera età, a causa di comportamenti o preferenze non conformi agli stereotipi di genere, come l’interesse per giochi o vestiti associati al genereopposto. Di fronte a questi segnali, spesso genitori e insegnanti hanno incoraggiato una “transizione sociale”, spingendo i bambini a identificarsi con l’altro genere attraverso l’abbigliamento e i comportamenti, o addirittura cambiando nome.

Questo fenomeno solleva importanti interrogativi. È senza dubbio positivo smantellare i pregiudizi di genere che impongono, per esempio, che i maschi giochino solo con i soldatini e le femmine con le bambole. I bambini dovrebbero essere liberi di esprimersi senza etichette. Tuttavia, sembra che il movimento trans, anziché superare questi stereotipi, li rafforzi. In passato, una bambina che preferiva giochi o vestiti “da maschio” non veniva considerata per questo “nel corpo sbagliato”. Oggi, invece, il rischio è che tali preferenze vengano interpretate come un segnale di disforia di genere, spingendo i bambini verso un percorso di transizione, che può culminare nel blocco della pubertà tramite farmaci noti come “puberty blockers”.

Questi farmaci, secondo molte cliniche che offrono cure per l’affermazione del genere (gender affirming care), vengono presentati come una soluzione innocua e reversibile per alleviare il disagio legato alla pubertà. Tuttavia, testimonianze di genitori di “detransitioners” mettono in luce un’altra realtà. Molti di loro raccontano di essere stati messi sotto pressione dai medici e dai terapisti, convinti che la transizione fosse l’unica via per prevenire il rischio che il loro figlio o figlia. La domanda ricorrente che viene posta è terribilmente diretta: “Preferite una figlia viva o un figlio deccecuto?”. Elon Musk, ad esempio, ha recentemente raccontato come suo figlio, dopo aver intrapreso la transizione, abbia tagliato ogni legame con lui. Anche Musk, come molti altri genitori, è stato messo di fronte a questa tterribile scelta, e, spinto dalla paura di perdere il figlio, ha acconsentito alla transizione.

Sebbene questi professionisti siano probabilmente convinti di operare nel miglior interesse dei minori, non possiamo ignorare il fatto che le cliniche per l’affermazione di genere stanno proliferando rapidamente ovunque, generando un giro d’affari di milioni di dollari. Inoltre, le aziende farmaceutiche traggono notevoli profitti dalle terapie ormonali a vita a cui devono sottoporsi coloro che scelgono di affrontare un percorso di transizione chirurgica. Viene quindi da chiedersi perché incoraggiare minori a compiere scelte così irreversibili, anziché aspettare che raggiungano l’età adulta e siano in grado di prendere una decisione più matura e consapevole.

Il periodo della pubertà è una fase cruciale nello sviluppo di un individuo, caratterizzata da profondi cambiamenti fisici e psicologici. Gli ormoni sessuali innescano una serie di trasformazioni che portano alla maturità, come lo sviluppo del seno nelle ragazze e l’aumento della massa muscolare e della statura nei ragazzi. Questi cambiamenti possono essere disorientanti per gli adolescenti, che spesso si trovano a fare i conti con un corpo che cambia rapidamente, talvolta provocando un senso di estraneità e disagio. È comprensibile, quindi, che alcuni giovani possano vivere la pubertà con difficoltà, ma bloccare questo processo naturale con farmaci non sembra una soluzione adeguata.

Nonostante le affermazioni di alcuni esperti secondo cui i “puberty blockers” sarebbero completamente reversibili, la realtà è diversa. Bloccare la pubertà ha conseguenze permanenti. Ad esempio, la terapia ormonale può compromettere la fertilità in modo irreversibile, lasciando sia ragazzi che ragazze sterili. Questa realtà ha portato alcune nazioni, come il Regno Unito e la Svezia, a rivedere le loro politiche in materia. In questi paesi, è ora vietato somministrare ormoni o permettere interventi chirurgici ai minori prima che abbiano raggiunto la maggiore età.Il dibattito sulla transizione di genere in età giovanile è complesso e delicato. Da una parte c’è il desiderio di proteggere i diritti dei giovani e permettere loro di vivere autenticamente la loro personalità. Dall’altra, ci sono i rischi associati a decisioni drastiche e irreversibili prese in un momento della vita in cui la consapevolezza e la maturità non sono ancora del tutto sviluppate.

Le storie dei “detransitioners” e dei loro genitori ci offrono un’importante lezione: prima di intraprendere un percorso di transizione medica, è essenziale che venga messa in atto una riflessione approfondita e un supporto psicologico adeguato, per garantire che i giovani siano davvero consapevoli delle scelte che stanno per fare. 

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