Decisamente, non è una settimana positiva quella che si avvia a concludersi per Facebook, condannata per violazione del diritto d’autore nei riguardi di un noto network televisivo italiano (Mediaset), ma anche finita al centro di un ennesimo scandalo sulla privacy, che già ha iniziato ad avere le prime conseguenze.
Qualche giorno fa, il noto social network di Menlo Park è stato condannato (sentenza 3512/2019) per violazione del diritto d’autore (la prima volta che un social è considerato responsabile per una cosa del genere) e diffamazione per una questione le cui origini risalgono al 2012. In quell’anno, su Facebook venne creata una fan page dedicata all’anime Kilari, andato in onda su Italia Uno con una sigla cantata dalla giovane artista Valentina Ponzone. Di per sé, non ci sarebbe nulla di male in tutto ciò, non foss’altro che la location in questione ospitava link a video YouTube in cui, in spregio alle normative sul copyright, erano riportati porzioni del suddetto cartone animato con, in più, anche del commenti tutt’altro che carini nei confronti della cantante. Invitata alla rimozione dei link, Facebook non ha fatto nulla, finendo con l’essere condannata – nei giorni scorsi – dal Tribunale di Roma.
Facebook, tramite un portavoce, ha subito commentato la vicenda, dicendo di star esaminando la sentenza in questione, e che è molto attenta alla questione del diritto d’autore visto che, grazie ai suggerimenti dell’industria creativa, ha già creato sistemi di segnalazione per i contenuti protetti, con un team che analizza le segnalazioni 24/7, e che ha investito molto negli algoritmi per individuare prima ancora della segnalazione i contenuti soggetti a diritto d’autore.
Ancora peggiore si è dimostrato un nuovo scandalo sulla privacy, nel quale è rimasta coinvolta Facebook. Secondo un’inchiesta del Wall Street Journal, condotta grazie ad un software della security house americana Disconnect, ben 11 (delle 70 analizzate), applicazioni iOS (problema riscontrato pure con “BetterMe: Weight Loss Workouts” disponibile anche su Android) invierebbero informazioni personali sensibili a Facebook senza ottenere l’autorizzazione degli utenti.
Le app in questione sarebbero tutte molto popolari (in un caso, con 25 milioni di utilizzatori), e riguarderebbero in molti casi (tranne una, Realtor.com, che si occupa di annunci immobiliari, anche questi tracciati, quanto a case preferite e range di spesa indicato) la salute umana (es. “Flo Period & Ovulation Tracker”, “Instant Heart Rate: HR Monitor”, “Breethe”).
Le informazioni carpite (es. peso, periodo fertile o delle mestruazioni, intenzione di rimanere incinta, etc), raccolte tramite il kit “App Events” fornito da Facebook agli sviluppatori per tracciare le attività degli utilizzatori, verrebbero spedite ai server del social, anche nel caso non si stia utilizzando Facebook o non si sia proprio iscritti ad esso, spesso in forma anonima, anche se la presenza di marker – come l’identificativo pubblicitario univoco – permetterebbero comunque di associare tali dati a un profilo, con conseguente targhettizzazione a scopo pubblicitario, e personalizzazione dell’esperienza utente sulla piattaforma in blu. Il tutto, poi, avverrebbe senza l’adeguata informazione degli utenti sulle tipologie di dati raccolti e sul fatto che questi ultimi vengano inviati a Facebook.
Quest’ultima ha ammesso la pratica, sostenendo che si tratta di uno “standard nel settore“, ma ha spiegato di non usare i dati sensibili per presentare annunci o articoli mirati nel NewsFeed e che, anzi, alcune informazioni come il numero di previdenza sociale (il social security) vengono cancellate automaticamente. In ogni caso, la condivisione dei dati verrà inibita alle app incriminate, con i programmatori che verranno sanzionati nel caso non si adegueranno. Il problema, però, è che gli sviluppatori delle stesse potrebbero già incorrere in varie sanzioni, per la violazione del GDPR europeo, ed essere rimosse da Apple, che non tollera la raccolta non autorizzata di informazioni personali.
Infine, a proposito di app rimosse, Facebook ha tolto dal Play Store di Android (dopo averlo fatto lo scorso anno, ad Agosto, sull’App Store di iOS) la sua app (tracciante) di tunneling Onavo VPN (acquistata nel 2013 per 200 milioni di dollari) che, in teoria, doveva criptare e compattare la navigazione mobile da e verso la rete internet. Tale app, poi, era stata utilizzata come base per “Facebook Research“, l’app – coinvolta a sua volta in uno scandalo sulla privacy – che pagava mensilmente (fino a 20 dollari) gli utenti (anche minorenni) perché si facessero tracciare nell’uso delle proprie app preferite ed attività sul web.