Non v’è giorno che Facebook non faccia parlare di sé anche per le polemiche relative al trattamento dei dati personali, o per qualche comportamento disinvolto verso questa o quella categoria di utenti: nei giorni scorsi, alcuni documenti sequestrati al social hanno dato il là ad un nuovo scandalo, mentre un ex manager della compagnia ha rivelato che Menlo Park discriminerebbe gli utenti afroamericani.
Come noto, nelle scorse settimane, la Commissione per il Digitale e i Media della camera bassa inglese sequestrò alcuni documenti, a un manager del social di passaggio a Londra, visto anche il diniego di Zuckerberg nel presentarsi davanti al gruppo d’indagine in questione.
Analizzando le carte, ed alcune corrispondenze avvenute con Amazon e la Royal Bank of Canada, come riferisce il Wall Street Journal, è emerso che in quel di Menlo Park – tra il 2012 ed il 2014, in un momento nel quale erano allo studio dei sistemi per incrementare i ricavi visto il non esaltante esordio in Borsa – abbiano pensato di guadagnare, grazie agli inserzionisti, dai dati personali degli utenti.
Addirittura, un dipendente del colosso internettiano, in seguito allo scandalo Cambridge Analytica che aveva consentito agli sviluppatori delle app di accedere ai dati degli utenti e dei loro amici in modalità del tutto gratuita, a causa di un bug, avrebbe consigliato di consentire l’accesso ai contenuti riservati degli iscritti solo dietro il pagamento di un abbonamento annuale, magari da 250 mila dollari.
La replica del social non si è fatta attendere, ed è stata un’ammissione a metà: in pratica, nel valutare come allestire un business sostenibile attorno alla piattaforma, si valutarono diverse opzioni, tra cui quella citata dal giornale, salvo poi cestinare il tutto e non procedere in quella direzione. Una sorta di conferma, dunque, di quanto dichiarato da Zuckerberg, ad Aprile, davanti al Congresso americano, allorché – piccato – sostenne “non posso essere più chiaro su questo argomento: noi non vendiamo dati“.
Anche in tema di diritti civili, Facebook lascerebbe molto a desiderare. Nel bel mezzo dell’estate, ad Agosto, Facebook aveva ricevuto una diffida dal Department of Housing and Urban Development americano per aver permesso ai venditori di case di selezionare il pubblico delle proprie inserzioni per parametri discriminanti come origine nazionale, razza, disabilità, etc, mentre nel Settembre scorso la American Civil Liberties Union si lamentò del fatto che alcune inserzioni di lavoro (apparse sul social) avessero discriminato il pubblico femminile: ora, un ex manager di Menlo Park, Mark S. Luckie, ha pubblicato una lettera nella quale attribuisce al suo ex datore di lavoro un “black problem“.
Quest’ultimo si esplicherebbe in vari modi, tutti stridenti rispetto ai tanti poster di persone di colore presente nel quartier generale del social: i dipendenti di colore dietro le scrivanie sarebbero ben pochi, e questo perché verrebbero ritenuti “aggressivi” e “ostili“, spesso votati a segnalare – al reparto risorse umane – problematiche non esistenti nella realtà, solo per nascondere la loro incapacità a far parte di un dato team. Inoltre, vi sarebbe una differenza anche nel modo in cui ci si approccia con le comunità locali: a seconda di chi si ha di fronte, si metterebbero meno risorse a disposizione per programmi esterni, attività di avvicinamento territoriale/digitale, ed eventi, quando si avrebbe a che fare con i cittadini dei sobborghi.
Infine, nonostante l’alta partecipazione della comunità afroamericana sul social, sia per contattare i familiari che gli amici, sarebbero loro (rispetto a quelli degli altri gruppi etnici) i post con la più alta probabilità d’essere rimossi, pur non violando alcun termine di servizio.