Spotify, il gigante dello streaming musicale, è stato recentemente accusato di utilizzare musica generica prodotta a basso costo per riempire le sue playlist, a discapito degli artisti indipendenti. Questa pratica, secondo quanto riportato in un articolo su Harper’s Magazine, potrebbe minare il sistema meritocratico che Spotify ha cercato di costruire, riducendo al minimo i compensi destinati ai veri creatori di musica.
Il cuore di questa accusa risiede nel programma “Perfect Fit Content” (PFC), attraverso il quale Spotify collabora con studi di produzione per acquistare brani a basso costo. La musica prodotta attraverso questo programma, che include generi come il lo-fi, la musica ambientale e la musica classica, viene poi inserita nelle playlist più popolari della piattaforma. Secondo il rapporto, Spotify acquista questa musica per una tariffa fissa, evitando così di pagare royalties agli artisti che hanno creato il contenuto originale.
La musica generata da questo sistema avrebbe come unico obiettivo quello di riempire le playlist con tracce facilmente fruibili e prive di un forte legame culturale o artistico, ma comunque adatte a soddisfare le richieste degli utenti.Questa pratica ha suscitato preoccupazioni in tutta l’industria musicale, poiché Spotify, pur vantandosi di essere una piattaforma che promuove la scoperta musicale democratica, finisce per favorire la musica prodotta in serie da queste società di produzione, relegando gli artisti indipendenti a un ruolo secondario.
L’azienda, infatti, paga pochissime royalties, tra i 0,003 e i 0,005 dollari per stream, rendendo più conveniente per Spotify acquistare musica in blocco piuttosto che sostenere i musicisti emergenti. Il rischio di una piattaforma che promuove contenuti generici a discapito della musica autentica è evidente. Come ha sottolineato Liz Pelly, la giornalista di Harper’s, “il programma PFC di Spotify mina l’idea di meritocrazia dello streaming“.
Infatti, anziché premiare la qualità e la diversità artistica, Spotify potrebbe optare per tracce standardizzate che non richiedono particolari investimenti creativi, riducendo al minimo i compensi e ignorando l’importanza culturale dei generi musicali più ricercati.
Spotify, dal canto suo, ha smentito le accuse, affermando che gli editori delle playlist non sono incentivati a includere contenuti PFC, ma gli ex dipendenti intervistati sembrano avere un’opinione diversa, indicando che la pratica è tuttora in atto. Questa discrepanza tra le dichiarazioni ufficiali e le esperienze degli ex dipendenti solleva ulteriori interrogativi sulla trasparenza delle politiche aziendali. Inoltre, un’altra preoccupazione che emerge riguarda l’intelligenza artificiale. Spotify è uno dei sostenitori dell’uso dell’IA per la creazione musicale, ma questo potrebbe portare alla diffusione di tracce create artificialmente che simulano il lavoro di artisti reali. Secondo i critici, ciò potrebbe significare l’ingresso di “wallpaper musicali” – tracce anonime create da software – nelle playlist, riducendo ulteriormente la varietà e la qualità musicale offerte agli utenti.