Chiede 45 mln di risarcimento, per un bug di Uber che lo fa divorziare

Questa la richiesta fatta da un business man francese ad Uber, rea - ai suoi occhi - di avergli causato il divorzio, per via di un bug che consentiva alla moglie di conoscere i suoi spostamenti, senza nemmeno il bisogno delle credenziali di accesso.

Chiede 45 mln di risarcimento, per un bug di Uber che lo fa divorziare

Si parla spesso di come le applicazioni, che usiamo quotidianamente, siano potenzialmente pericolose per la privacy personale ma, sovente, si pensa che si tratti di esagerazioni. Forse lo pensava anche l’uomo d’affari francese che, coinvolto in una causa di divorzio a causa di un bug di Uber, ha chiesto a quest’ultima un risarcimento di 45 milioni di euro!

Tutto è iniziato qualche tempo fa, in Costa Azzurra, quando un uomo d’affari francese di 45 anni si è fatto prestare l’iPhone dalla moglie, per prenotare una corsa su Uber, il servizio di conducenti privati che sopperisce alla mancanza di trasporti pubblici, o al caro prezzi dei taxi ufficiali. L’uomo, dopo essersi loggato su Uber col suo account, e aver effettuato la prenotazione, si è scollegato normalmente: il problema è che anche così, il telefono della moglie ha continuato a ricevere notifiche degli spostamenti dell’uomo.

Sia chiaro: nessun tracking in tempo reale della posizione, o coordinate della destinazione finale, ma informazioni come il nome del conducente, il numero di targa, e l’orario di utilizzo del servizio che, pur sempre, permettono di farsi un’idea di quando sian stati richiesti i servigi di Uber per spostarsi. La coniuge ha fatto un po’ di conti, e ha subodorato un probabile tradimento: da qui, la richiesta di divorzio, che potrebbe costare assai cara al business man francese.

Il quale, ovviamente, non ha alcuna intenzione di incassare il colpo senza vendicarsi contro quella che ritiene, ai suoi occhi, l’unica responsabile del suo divorzio, ovvero l’app Uber, ed il suo bug: per questo motivo, dagli avvocati dell’uomo è partita una richiesta di risarcimento pari a 45 milioni di euro, nei confronti dell’azienda statunitense con sede a San Francisco. La prima udienza tra le parti, per la causa in questione, si terrà il mese prossimo presso l’alta corte di Grasse, un bellissimo paese di circa 50 mila anime nel dipartimento della Provenza-Alpi-Costa Azzurra.

Il quotidiano “Le Figaro” ha interpellato il servizio relazioni esterne di Uber che, però, si è rifiutata di rilasciare qualsiasi comunicazione, adducendo la motivazione che fa parte della politica aziendale non commentare i casi singoli. Minimizzazioni a parte, il prestigioso quotidiano francese ha scoperto diverse altre cose sul bug in questione, afferente Uber, che aggraverebbero non di poco la situazione di quest’ultima.

Innanzitutto, a quanto pare, NON si tratterebbe di un caso isolato, dacché proprio “Le Figaro” ha replicato la situazione del business man francese su un altro iPhone, con eguale esito: quest’ultimo continuava a ricevere le notifiche di cui sopra, anche a logout avvenuto sull’app Uber. E nonostante fosse stato effettuato il log-in sul terminale “ufficiale”. 

Nello specifico, poi, sembra che tutto sia da imputare ad un difetto nel sistema dei “tokens” (gettoni) che l’app rilascia al device onde consentire la ricezione delle notifiche: quando ci si disconnette dall’app su un terminale, Uber dovrebbe revocare questi ultimi, sì da evitare che le notifiche giungano sul dispositivo sbagliato. Ecco, a quanto pare, su Android questo problema non si pone, ma sui device iOS sì, almeno sulle versioni precedenti l’aggiornamento del 15 Dicembre.

 

Considerando che Uber viene utilizzata mensilmente da 40 milioni di persone, nonostante sia difficile quantificare quanti di costoro possano essere potenziali vittime di tale bug, quello che ne emerge è che Uber potrebbe trovarsi in guai grossi, e non solo per la richiesta di danni riferita in sede di articolo! In alcune nazioni, infatti, esiste una bella gatta da pelare, che risponde al nome di “class action”!

In ogni caso, quella di Uber non rappresenta il solo caso di app potenzialmente lesiva della privacy personale, specie in questioni private. Un report del 2010, stilato dall’associazione americana avvocati matrimonialisti, spiegava che Facebook, già allora, era coinvolta in 1 causa di divorzio su 5. Solo in Europa, le cose vanno un po’ meglio: in Francia ad esempio, spiega l’avvocato Judith Duperoy, non sempre le prove digitali sono ammesse nelle cause di divorzio e, quando anche accade, è necessario che siano circostanziate, ripetute nel tempo, e di elevata gravità (insomma, non basta la sola iscrizione ad un sito di incontri, per esser messi alla porta dal partner).

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