I Muse conquistano San Siro nella loro prima tappa italiana

Venerdì 12 luglio i Muse hanno aperto il ciclo di date che sancisce il loro passaggio in terra italiana. La band è in tour mondiale per produrre l'ultimo disco, "Simulation Theory". Ecco un racconto della serata.

I Muse conquistano San Siro nella loro prima tappa italiana

C’era molta attesa per il debutto italiano dei Muse, impegnati nel tour mondiale dedicato all’ultimo lavoro, “Simulation Theory”. La visita nel Bel Paese ha preso il via venerdì 12 luglio, dallo stadio San Siro di Milano. L’impianto esaurito in ogni ordine di posto ha accolto con calore tipicamente italiano la band di Bellamy e compagni, che si è prodigata in due tiratissime ore di spettacolo ad alto tasso tecnico.

L’arrivo sul palco della band viene anticipato dalla performance in apertura di due ottimi gruppi, in particolare dai The Amazons, giovane rock band inglese alla vecchia maniera con volumi alti e riff esagerati che portano lo spettatore all’inevitabile head banging. Attorno alle 21,30, tuttavia, la scena passa giustamente a quelli che saranno i padroni di casa per le successive due serate a San Siro, vale a dire i tanto attesi Muse. La band di Bellamy fa uno spettacolare ingresso in scena accompagnata da luci psichedeliche che svettano su un palco imponente, dotato di un enorme maxi schermo e di impianti laser da fare invidia alla NASA.

È “Pressure” ad aprire la serata, fortunato singolo tratto direttamente dall’ultimo disco. La folla non si fa certo attendere e si scatena a ritmo di musica saltando e sovrastando letteralmente la voce del frontman britannico, a dir poco coperto dal coro di San Siro che accompagna non soltanto strofe e ritornelli delle canzoni, ma anche riff di chitarra, melodie di tastiera e linee di basso, tutto pesantemente “doppiato” dal canto dello stadio. Il clamore del pubblico potrà nascondere a tratti la voce di Bellamy, ma non può assolutamente eclissare lo strepitoso stato di forma con cui il cantante sta affrontando questo impegnativo tour mondiale.

Fin dai primi pezzi si ha l’impressione di ascoltare una registrazione, salvo poi capire che Matt è un cantante perfetto: pur suonando la chitarra e saltando da una parte all’altra del palco, il frontman non piega una nota, non sbaglia un attacco, non perde mai l’intonazione, nemmeno nelle parti e nei passaggi più complicati. Di certo tutto questo non rappresenta una novità, i fan dei Muse sono ovviamente abituati a prestazioni di altissimo livello non soltanto da parte di Bellamy, ma anche da parte di Dominic Howard, batterista dal drumming solidissimo, e Chris Wolstenholme, bassista e corista dalla tecnica a dir poco eccellente.

Una scaletta di successi con un trionfo tecnologico

Essendo un tour promozionale, sono presenti diverse canzoni tratte da “Simulation Theory”: su tutte, conquistano la folla “Tought Contagion“, tiratissimo pezzo caratterizzato da un fantastico riff molto alternative, “Propaganda“, accattivante pezzo dalle strofe suadenti e “Algorithm“, angosciante litania dal suono prepotentemente tecnologico e moderno. Sono però i vecchi cavalli di battaglia della band a scaldare maggiormente il cuore dei presenti e a generare vere e proprie ovazioni sugli spalti: il pubblico ha infatti cantato con la band canzoni come “Uprising“, vero e proprio inno, “Starlight“, dolce ballad dal ritornello catchy, “Time is running out“, cavallo di battaglia senza tempo del trio e “Knights Of Cydonia“, orgogliosa cavalcata rock che chiude la scaletta portandosi via le ultime scariche di adrenalina non soltanto della band, ma soprattutto dei presenti.

Soltanto guardando il palco, è stato facilmente intuibile il mood altamente tecnologico che ha caratterizzato la band negli ultimi anni e che pare essere diventato ora un vero e proprio marchio di fabbrica. Non si tratta infatti di un semplice palco, bensì di una struttura imponente che ospita un fantastico maxischermo, una moltitudine di luci e laser che rendono la serata unica, una lunga passerella con effetti speciali e, dulcis in fundo, un robot pronto ad emergere alle spalle della band con fare minaccioso, quasi a voler catturare i musicisti per portarli con se’ in una lontana dimensione tecnologica. L’esibizione è stata accompagnata in maniera elegante da un corpo di ballo agghindato con luci e costumi luccicanti stile albero di Natale.

Un ulteriore menzione andrebbe fatta per il capolavoro tecnologico che Bellamy e soci reggono tra le braccia durante tutta la durata del concerto: la band utilizza infatti quelle che potremmo definire “smart guitars“, ben lontane dal concetto di strumento musicale più classico che tutti siamo abituati a trovare sugli scaffali dei negozi di musica. Chitarre e bassi sono provvisti di una sorta di “touch pad” che permette ai musicisti di modulare pitch e suono che vengono sparati a tutto volume dagli altoparlanti. È quasi un peccato vedere Matt Bellamy lanciare in aria e sfasciare una di queste chitarre, ma fa parte dello spavaldo show che è il rock’n roll.

Quando il rock evolve

La lezione più importante che emerge da questa fantastica serata di musica è una ed una soltanto: in un’era in cui a farla da padrone sul mercato discografico è la tanto discussa trap, il buon rock appare sempre più come una musica vecchia fatta per vecchi. Questo fenomeno è probabilmente diffuso a causa dell’atteggiamento che i fans e le stesse band hanno nei confronti del genere, che viene quasi trattato come un antico cimelio da tenere in salvo tramite tour memoriali (spesso al limite del ridicolo) messi in piedi da band estremamente attempate e in pessimo stato di forma che, sì, indubbiamente riempiranno le arene, ma difficilmente sapranno di rinnovamento.

I Muse riescono a prendere totalmente in contropiede questa corrente: la band britannica è riuscita a svecchiare il genere rock dandogli non soltanto una nuova dimensione, ma soprattutto una nuova forma, moderna, compatta, molto più adatta ai tempi che corrono. L’alternative proposto riesce ad accontentare qualsiasi tipo di fans: sono contenti tutti quelli che desiderano ballare, sono contenti tutti quelli che vogliono sciogliere i capelli per darsi all’head banging, in certi frangenti riescono ad essere contenti anche i più estremi che cercano e chiamano a gran voce il pogo.

Questo sono i Muse: un modo di dire “NO” all’invecchiamento del rock, un modo per tenere vivo un genere che rimane probabilmente il più bello ed espressivo del mondo, in ogni sua forma, ma eccessivamente radicato ad un passato che è andato e non potrà mai più tornare. I Muse, nel corso di una carriera che ormai supera il ventennio, sono stati in grado di rinnovare non soltanto il genere, ma soprattutto se stessi, il tutto senza mai svendersi o perdersi in maniera clamorosa.

Ne è piena testimonianza un’arena colma all’inverosimile che non ha perso occasione per cantare ogni singola nota di ogni singola canzone. Il Rock, dunque, non è morto, ha soltanto cambiato forma: se prima poteva assomigliare ad un musicista androgino dalle zeppe alte e il trucco pesante, ora ha le sembianze di un alieno/cyborg che sbarca su un pianeta sconosciuto, desideroso di portare a tutti le proprie melodie fatte di note perfette, strumenti futuristici e suoni che sembrano fatti da sofisticate macchine.

 

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