L’operazione per catturare il pericoloso latitante Vito Trabìa finisce con un buco nell’acqua: i poliziotti, giunti sul posto in cui avrebbero dovuto sorprendere il boss, trovano solo un vecchio lattaio; di don Vito nessuna traccia.
A Palermo l’ispettrice Milena di Giacomo, reduce dalla difficile rottura con la sua ragazza, riceve quella che a prima vista sembra la lettera di un mitomane, ma che si rivela in realtà un guanto di sfida: qualcuno ha rapito Vito Trabìa e ora intima a Lena di ritrovarlo, entro ventiquattro ore e senza l’aiuto dei colleghi, altrimenti il boss verrà ucciso; l’ispettrice non ha scelta, ma il compito è tutt’altro che semplice: per arrivare a capire dov’è don Vito, dovrà infatti risolvere la sequenza di indovinelli escogitata dal rapitore, enigmi che fondono arte e letteratura con la storia e le leggende del capoluogo siciliano.
Aiutata dallo psicologo Leonardo Colli, Lena intraprenderà così una pericolosa caccia al tesoro, che la condurrà tra i vicoli e i monumenti di una Palermo misteriosa ed esoterica, per giungere a perdifiato all’epilogo di una storia nella quale niente è come sembra.
Il romanzo non è lunghissimo e risulta sempre scorrevole, con la narrazione che entra immediatamente nel vivo e la trama che si fa affascinante e piena di colpi di scena: la suspence rimane alta fino alla fine.
Il focus si sposta spesso tra le forze dell’ordine, i mafiosi affiliati allo scomparso e chi l’ha rapito. Il linguaggio contiene diversi termini dialettali non facili da comprendere per chi non è siciliano e in alcuni punti è molto simile al parlato, risultando quindi sgrammaticato; nel complesso l’autore regala un bel giallo con un numero di pagine abbastanza ridotto; esistono alcuni parallelismi con Il codice da Vinci, ma naturalmente anche tante differenze: ad esempio, a indagare sono poliziotti terra terra e non raffinati professori.