Lale fa il tatuatore nel campo di concentramento di Auschwitz. È un ebreo anche lui. Sotto un cielo plumbeo e contro uno sfondo di casermoni e filo spinato ogni giorno una fila di donne si presenta a lui con un bigliettino e un numero di cinque cifre scritto sopra. Lale lo prende, afferra il braccio di chi glielo porge e incide la cifra.
Lale è a suo modo un carnefice. Lui non uccide il corpo, ma l’identità. Prima di passare sotto le sue mani, le donne in fila hanno un nome e un cognome, esseri umani fatti di carne ed emozioni, lui li sostituisce con un numero, razionale e assurdo nello stesso tempo, sequenza di cifre ordinate, ma comunque perse nella moltitudine. L’uomo lavora a testa bassa. Prova ribrezzo per la sua opera, si vergogna di se stesso e di ciò che è dovuto diventare suo malgrado: è un operaio in un’orribile catena di montaggio.
Un giorno incontra lo sguardo di Gita. Lei gli porge il biglietto, lui le tatua il numero. Ma i loro occhi non si lasciano dopo quel primo abbraccio e i loro nomi, uno per l’altro, non sono destinati a finire in una sterile sequenza di cifre.
Il tatuatore di Auschwitz edito da Garzanti, è il primo romanzo della scrittrice neozelandese Heather Morris. Pensato inizialmente come sceneggiatura per un film, il racconto è stato adattato alla forma di un romanzo ed è uscito in Italia a gennaio 2018. Il tatuatore di Auschwitz è ispirato alla storia vera di Lale Sokolov che l’autrice del libro ha conosciuto e intervistato.
Lale e Gita sono l’amore che combatte contro l’orrore quotidiano. Sono una debole pianta che prova a mettere radici su un terreno inospitale. La loro vita si trasforma in piccoli gesti quotidiani, racconti abbozzati, sguardi più che altro perché la parola può essere un modo di comunicare troppo razionale in un posto dove la ragione è morta. Lale e Gita sono timidi tentativi di immaginare un futuro anche quando intorno si combatte per accaparrarsi il cibo e ogni giorno si fa di tutto per rimanere vivi.