Il ritorno della scrittrice indiana, vincitrice del Booker Prize nel 1997 per “Il Dio delle piccole cose”, ritorna a raccontare dei reietti, delle varie etnie e delle loro difficoltà tra la povertà e il lusso dei grandi centri commerciali. Dal Gujarat sino al Kashmir passando per New Delhi, la scrittrice indiana racconta e parla, come sempre, della sua terra, degli ultimi, delle lotte e dei soprusi che di volta in volta devono affrontare. In una terra martoriata da guerra, brutalità e violenza, ci apre il cuore e i sentimenti a una storia in cui le protagoniste sono tre donne.
Le tre donne protagoniste sono diversissime tra di loro, ma non si sono mai arrese e hanno sempre combattuto per quello che sentono. Conosciamo Anjium, una hijira, anime femminili racchiuse in corpi maschili che non sentono come il loro, o ancora ci commuoviamo davanti alla dolcezza di una bambina trovata in una culla tra i rifiuti, o ancora cerchiamo di carpire il mistero che si cela dietro a S. Tilloma, uno dei personaggi più curiosi della storia.
In questo suo romanzo la Arundhati dà voce agli ultimi, ma a differenza del libro precedente, qui riesce a toccare il cuore e la bellezza del lettore commuovendo e facendogli conoscere la tradizione e la cultura della sua terra.
Oltre alle donne, che sono le vere protagoniste, vi sono anche gli uomini che devono affrontare situazioni difficili e non semplici, che cercano di appoggiarsi alla loro amicizia, alla loro storia e a quello che riescono a fare insieme. Uomini innamorati della stessa donna di cui la scrittrice ci fornisce il punto di vista di ognuno di loro aiutandoci a conoscerli e a capirli un po’ di più.
Sebbene non avessi amato particolarmente “Il Dio delle piccole cose”, qui la Roy conferma le sue doti di grande scrittrice raccontando senza paura e senza vergogna il mondo di coloro che non hanno voce, lasciando che siano loro i protagonisti e restituendo loro una importanza che nessuno ha mai dato, facendoli sentire più vicini a tutti noi.