Quando accediamo allo store di uno smartphone, che sia il PlayStore di Android o l’App Store di Apple, i giochi che troviamo sono di tre categorie economiche. Ci sono i giochi che paghiamo una volta sola e restano nella nostra disponibilità (una licenza perpetua all’uso), quelli freemium (ovvero quelli gratuiti nei quali devi pagare per personalizzare il personaggio o sbloccare livelli difficili), e quelli gratis (per i quali non paghi alcun obolo ma, spesso e malvolentieri, subisci vessazioni pubblicitarie a gogò).
Messa così, sembra tutto molto chiaro e tranquillizzante. Ma, pensiamoci un attimo, esiste davvero il concetto di gratuito in rete e negli app store che tanto spesso frequentiamo? Quando scarichiamo un gioco gratuito, siamo sicuri di non fornire nulla in cambio?
Molte risposte, in tal senso, sono state fornire da un anonimo programmatore di videogame alla rivista online “Toucharcade” e sono di quelle da far “rizzare” i capelli in testa. Letteralmente. Il programmatore in questione ha spiegato di aver lavorato ai videogame dal tempo della nascita dell’App Store di Apple quando, assieme a dei colleghi, sviluppo’ alcuni dei primi giochi arcade di quello Store.
Il dilemma del team di cui faceva parte era “non è che, facendo dei livelli troppo difficili, perderemo il giocatore?”. Onde trovar soddisfazione al quesito, si pensò di includere un file tracciante nei giochi che rilevasse informazioni banalissime come ad esempio “quante vite ha perso il tuo avatar, quante munizioni ha sparato, quante volte ha ripetuto un livello etc”: in questo modo si poteva aggiornare il livello di difficoltà di gioco che, improvvisamente, diventava superabile.
Anche questo, in verità è un po’ inquietante. Ma è il meno. Proseguiamo. Lo sviluppatore in questione, nella sua intervista, afferma che i suoi capi gli avevano spesso chiesto maggiori informazioni sugli utenti in modo da incrementare la popolarità dei giochi, da spingere altre persone a scaricarli o a comprarne delle espansioni a pagamento. E qui iniziò, la “mietitura” vera e propria dei dati dai giocatori inconsapevoli.
La cosa, poi, assunse proporzioni spaventose con l’avvento di Facebook e la creazione dei primi tormentoni videoludici su questo noto social. Da allora si poterono acquisire dati quali l’IP di una persona che permetteva di sapere dove si trovasse: con l’IP delle persone con cui giocava più spesso era anche possibile risalire alla sua vera rete di amicizie, al di là dei contatti ammessi nel network.
Tutto qui? No. Nel caso una persona, all’interno di un gioco, scegliesse elementi non riconducibili alla nazionalità rilevata dal suo IP, se ne poteva dedurre che meditasse una vacanza, un trasferimento all’estero o una semplice voglia di imparare una lingua straniera. Tutti dati che, poi, si traducevano in offerte mirate che venivano presentate agli utenti, definiti “whale” (balene da prendere all’amo), i quali erano soliti investire più fondi in acquisti digitali e virtuali.
Non dimentichiamo, poi, i dati dei giochi ai quali ci si logga dopo aver creato un proprio profilo: si inserisce il sesso e l’età che, rispetto agli altri dati anagrafici spesso falsi, hanno sempre un grande fondo di verità e che, quindi, risultano essere preziosissimi a scopo pubblicitario per preparare offerte mirate.
Morale della favola? L’anonimo programmatore conclude che “niente è davvero gratis” e che se si gioca a titoli free o freemium si può star sicuri che qualcuno saprà dove vivi, cosa ti piace, dove lavori e quanto guadagni, a chi tieni di più e le tue preferenze politiche o religiose. E le userà, in qualche modo, per “gabbarti”.
L’unico modo per evitare questo scenario un po’ alla Matrix è quello di giocare a titoli a pagamento nei quali è già chiaro subito quello che dai all’altra persona in cambio di ciò che acquisti. Sarà anche un consiglio un po’ di parte ma che sia ispirato al buon senso è altrettanto indiscutibile. Non trovate?