C’è qualcosa di romantico nel parallelismo che viene implicitamente proposto tra la parabola della protagonista Yaxi liu e le storie di vita delle molte giovani cinesi che giungono in Italia a cercare fortuna e finiscono con l’alimentare nella stragrande maggioranza il sottobosco della prostituzione e (più in generale) dello schiavismo extracomunitario: lei è una che “ce l’ha fatta”, scovata ex loco in cina dalla troupe di un kolossal occidentale per esserne la protagonista (dopo una più che onorata carriera di performer marziale anche in grosse produzioni occidentali come “Mulan”) mentre le sue connazionali “scompaiono” (come al peggio capita alla sorella del suo personaggio) per la capacità degli esponenti della propria etnia, di occultarsi nel mondo a parte che la propria comunità, molto più di qualunque altra, è in grado di creare.
Poi però in questa brillante opera terza del convinto “Steven Spielberg de noiantri” Gabriele Mainetti, il taglio pseudo documentaristico, quasi di denuncia, che si vuole dare stride a tratti col piglio supereroistico delle gesta della quasi indistruttibile protagonista stessa, le cui (eventuali) doti recitative (comunque personaggio e interprete non conoscono l’italiano) sono oscurate da quelle di atleta. Ma tant’è, si tratta di un’opera che, come nel caso di “lo chiamavano Jeeg Robot” e “Freaks Out” brilla come pressoché un unicum nel panorama cinematografico italiano, anche a livello di costi: inevitabile volergli attribuire tante anime anche contraddittorie.
Dopo una vita passata nel folkloristico villaggio natio all’ombra della sorella maggiore, effetto della locale “politica del figlio unico”, Mei la vede scomparire una volta emigrata in Italia, e ne segue incazzatissima le tracce. Giunge così nella chinatown della capitale, un colorato e colorito Esquilino, e ci si scontra appena mette piede con il mondo di sotto del racket dello sfruttamento della comunità locale (che, in occidentalissima ottica individualista, dal film non esce proprio benissimo), mondo “di sotto” efficacemente messo in scena da gallerie e ambulacri di un set inedito quali i vasti depositi sotterranei della stazione Termini: come trait d’union con il mondo “di sopra”, ovvero la vita vera dalla ruspante romanicità, il ristorante tradizionale co-gestito da Marco Giallini con Sabrina Ferilli e figlio, un quasi inedito Enrico Borello in modalità Edoardo Leo, orfani di pater familias, datosi alla macchia per essersi invaghito della prima che ha incontrato, forse una prostituta, forse una cinese…. A forza di botte, Mei conquista alla sua causa vendicativa il giovane rampollo, causa che rivelerà, in un climax finale Shakesperiano, una immagine melodrammatica dei portici di piazza Vittorio, per quanto lerci e fatiscenti, davvero inedita.
Avvalendosi oltre che della protagonista, di maestranze di rilevanza Hollywoodiana, Mainetti regala, dopo quella del supereroe e quella di “Indiana Jones”, la sua visione del cinema action (e tarantiniano) imbevuto da decenni di arti marziali per lo piu fini a se stesse, di puro spettacolo, senza risparmiarsi di pagare dazio all’artefice di ciò, Bruce Lee, che proprio in setting limitrofi (con memorabile resa dei conti al Colosseo) ambientò il suo pressoché ultimo film 50 anni or sono; e lo fa con altissima professionalità (i numerosi combattimenti sono coreografati splendidamente) consapevole dei propri mezzi e della portata di apologo che insegue: al netto di una certa stereotipia dei caratteri, con Giallini, mattatore come sempre, e una Ferilli con un pizzico della Marisa Tomei di Spiderman (più Zingaretti a fare da cartolina, anzi da fotografia), bravissimi per carità ma incastrati nei loro topoi, l’operazione si può dire riuscita.
Genere: azione
Regia e sceneggiatura: Gabriele Mainetti
Interpreti: Marco Giallini, Sabrina Ferilli