Facebook: dopo il mea culpa di fine anno, nuove polemiche per la moderazione e la privacy

Facebook, nei giorni scorsi, ha salutato il 2018 con un mea culta, ma - nel contempo - è finita nuovamente al centro della cronaca per alcune polemiche relative alla moderazione, ed alla privacy degli utenti: ecco di cosa si tratta.

Facebook: dopo il mea culpa di fine anno, nuove polemiche per la moderazione e la privacy

Nel mentre il vecchio anno, per Facebook, si è aperto con alcune scuse fornite da Mark Zuckerberg, che ha anche donato 1 milione di dollari alla Wikipedia, quello nuovo si apre all’insegna di nuove polemiche per il social network in blu, Facebook. 

Nell’anno in cui Facebook ha perso il 24% del suo valore in Borsa, è arrivato l’ennesimo mea culpa di Zuckerberg che, in post di fine anno, dopo aver difeso Facebook quale strumento per aggregare le persone, ha spiegato che per affrontare alcune questioni, come le interferenze politiche e la privacy, ci vorrà molto tempo, mentre altre – relative all’incitamento all’odio – non saranno mai del tutto risolte. Ciò nonostante, continua il CEO del social, Facebook ha mutato DNA ed ora è molto più proattivo, con diversi progressi comunque ottenuti.

Facebook, secondo alcuni dati snocciolati a fine anno, avrebbe anche aiutato a trovare circa 1 milione di posti di lavoro e raccolto oltre 1 miliardo di dollari in donazioni per varie cause: a tal proposito, è notizia di qualche giorno fa che Zuckerberg ha donato 1 milione di dollari alla organizzazione no-profit Wikimedia Foundation, che gestisce l’importante enciclopedia online Wikipedia, spesso usata come fonte per fornire informazioni di contesto in calce agli articoli presenti nel NewsFeed. 

Intanto, la più grande piazza virtuale del mondo, con i suoi oltre 2 miliardi di iscritti, torna al centro di polemiche, grazie al New York Times, venuto in possesso – da un anonimo dipendente di Facebook – di alcune slide relative alle policy di moderazione seguite a Menlo Park. Da quanto emerge, la moderazione dei contenuti sarebbe affidata a 7.500 persone, con delle indicazioni che verrebbero variate settimanalmente, ed instradate alle emanazioni locali del social dopo una traduzione realizzata al risparmio via Google Traslate: in conseguenza di ciò, gli equivoci causati sarebbero stati molti (critiche alla religione cancellate in India, post bloccati per la raccolta fondi a favore delle vittime del vulcano in Indonesia, etc). In più, l’elenco dei soggetti da tenere sotto controllo sarebbe lacunoso, e focalizzato su UK e USA, con appena 8-10 secondi concessi ai moderatori per validare o meno un post (con annesso stress denunciato da molti di essi, tanto da costringerli a lasciare il lavoro dopo pochi mesi). Facebook, ovviamente, ha prontamente replicato, ammettendo che cambia spesso le regole di moderazione, ma non in modo improvvisato, visto che il team adibito alla moderazione (30 mila persone, con 15 mila di esse specializzate nel revisionare i contenuti) agisce sulla base dei trend notati dai controllori, e tenuto conto dei feedback ricevuti. 

Cinque anni fa, Facebook spiegava – con un post – di mostrare annunci mirati solo in base alle posizioni recenti rilevate tramite GPS e che, in assenza di quest’ultimo, non raccoglieva dati. Aleksandra Korolova, professoressa di informativa presso la University of Southern California ha dimostrato, invece, che il social geolocalizza comunque gli utenti, in base a dove si connettono, all’IP del loro device, all’uso del Bluetooth, ed al check-in dei profili Facebook e Instagram. Interpellata da Gizmodo, Facebook si è scusata di non aver aggiornato il vecchio post in merito alla questione.

Infine, un nuovo e grosso scandalo sulla privacy. La no-profit Privacy International ha analizzato alcune applicazioni gratuite che interagiscono con Facebook, nel tentativo di capirne la modalità di remunerazione, ed ha scoperto che una ventina di esse comunica regolarmente al social dati quali il nome dell’app, quante volte viene aperta e chiusa, e l’ID univoco dell’utente. Addirittura, il comparatore Kayak passa dati sulle ricerche in merito ai voli (destinazione, date, presenza di minori): il tutto senza chiedere alcun permesso, a causa di un bug nell’ambiente di sviluppo (SDK) passato da Facebook, mai soggetto ad una definitiva correzione (a 6 mesi dal presunto fix, il 67,7% delle app veicola ancora le informazioni al social, con buona pace del GDRP europeo). 

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