Scoperto bersaglio molecolare per la cura della sindrome di Duncan

Grazie ai finanziamenti ricevuti dalla Fondazione Telethon, si è scoperto che inibendo l'attività di un nuovo bersaglio molecolare (chiamato DGKa) è possibile curare la sindrome di Duncan

Scoperto bersaglio molecolare per la cura della sindrome di Duncan

La sindrome di Duncan (o sindrome linfoproliferativa legata al cromosoma X) è una malattia genetica molto rara, generalmente asintomatica, diagnosticata ogni anno in meno di 1 su 1 milione di bambini e adolescenti presenti nel mondo; essa si manifesta con una mononucleosi infettiva fulminante, che provoca una reazione immunitaria a danno di numerosi organi (fegato, milza, cervello…), scatenata dal virus di Epstein-Barr (Ebv), appartenente al gruppo degli herpes virus.

Il 70% dei bambini affetti da questa sindrome, se non vengono trattati, muoiono nell’arco di 10 anni. Fino ad oggi l’unica possibilità di cura è stata rappresentata dal trapianto di midollo osseo, il quale però presenta un grosso limite: risulta essere efficace solo se effettuato prima di essere esposti al virus di Epstein-Barr.

Fortunatamente, anche grazie al prezioso contributo della Fondazione Telethon, è stato condotto uno studio, coordinato da Andrea Graziani, professore di biochimica all’Università Vita-Salute San Raffaele e già professore all’Università del Piemonte Orientale, che ha portato a scoprire che inibendo l’attività di un nuovo bersaglio molecolare dal nome “DGKa” è possibile bloccare la malattia, almeno per quel che riguarda il mondo animale. Infatti nei linfociti dei pazienti che soffrono di sindrome di Duncan l’enzima DGKa consuma il diacilglicerolo, molecola che consente al linfocita di sviluppare una risposta al virus.

Andrea Graziani ha spiegato: “Il nostro lavoro fornisce per la prima volta la prova che questo enzima può diventare uno strumento terapeutico in grado di promuovere la morte e quindi l’eliminazione dell’eccesso di linfociti attivati che caratterizza la malattia. Obiettivo futuro sarà quello di sviluppare inibitori farmacologici di questo enzima per arrivare a una cura per la malattia”.

Lo studio in questione è stato pubblicato sulla rivista “Science Translational Medicine” e ha visto anche la collaborazione dell’Uniformed Services University of the Health Sciences di Bethesda, del St. Jude Children’s Research Hospital di Memphis, dell’Università degli Studi di Siena e del National Institutes of Health di Bethesda.

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