Robert Smith compie 58 anni, l’antieroe per eccellenza

Robert Smith compie 58 anni: il perfetto antieroe che continua ad essere se stesso suonando concerti da 3 ore nella gloria irresistibile dei fan che non possono smettere di amarlo.

Robert Smith compie 58 anni, l’antieroe per eccellenza

Robert Smith leader dei The Cure compie 58 anni: l’uomo che ha attraversato decenni rimanendo se stesso, nel suo volo pindarico fra ansie, depressioni, emozioni, esaltazioni, contraddizioni, accelerazioni e rallentamenti. Un ragazzo immaginario capace di far innamorare ancora e ancora il suo pubblico. I Cure hanno imposto la loro musica al mondo.

I primi tre album hanno segnato un’epoca e conoscerli è basilare per comprendere i Cure le loro evoluzioni, i repentini cambi di direzione, il rivedere se stessi talvolta in una luce diversa.

I Cure iniziarono come terzetto, diciottenni provenienti da Crawley, correva l’anno 1977: chitarra (Robert Smith), basso (Michael Dempsey), batteria (Lol Tolhurst). L’epoca punk travolge l’Inghilterra la musica dei Cure risente di questa influenza, contaminandola con sonorità originali, vagamente pop.

L’esordio sarà “Killing An Arab”, il primo singolo edito, un brano scarno, tradizionalmente punk, avvolto in clima misterioso, perso in linee melodiche esotiche, la voce spettrale è angosciata, canta un episodio ripreso dal romanzo esistenzialista di Albert Camus “Lo straniero”. Il lato B del 45 giri, uscito nell’inverno del ’78 e poi ristampato nel ’79 dalla Fiction, è “10:15 Saturday Night”, un brano claustrofobico, l’interazione ossessiva di basso e chitarra sfociano nel liberatorio ritornello.

Robert Smith si impone col suo peculiare stile chitarristico parco di note, ma di grande effetto, e con il suo incedere vocale timido, nevrotico, passionale: un marchio inalterato. Nel ’79 esce un altro brano simbolo della band, quella “Boys Don’t Cry” che rivela al mondo il supremo talento di Smith nell’edificare melodie pop, intrise di nostalgie e rimpianti: uno sguardo all’innocenza perduta degli anni 60, rievocata con struggente rimpianto.

L’album d’esordio “Three Imaginary Boys” ripropone la formula pop-rock dei primi singoli consegnado almeno altre due perle come “Fire In Cairo” e la title track, prima di tante ballate malinconiche della band, culminante con un assolo lacerante.

Con “Seventeen Seconds” del 1980 le atmosfere diventano cupe, i ritmi rallentano, le sparse note di chitarra risuonano in empi spazi desolati,  la voce di Smith, si contorce in un lamento che pare provenire da un’altra realtà. “A Forest” nel suo saliscendi di basso e chitarra, consegna sei minuti lisergici, nel labirintico assolo tinteggiato da scariche elettriche, che implode su se stesso spengendosi nel basso ritmico, come un cuore pulsante.  Il cambiamento è frutto dell’ingresso alle quattro corde di Simon Gallup che diverrà un vero e proprio alter ego di Smith  ma anche dall’amore per le atmosfere definitive, psicotiche di dischi come “Unknown Pleasures” dei Joy Division e “The Scream” di Siouxsie and the Banshees.

È l’incrocio tra la melodia e la malinconia (Play For Today), tra l’intimismo e la depressione, il passaggio drammaticamente obbligatorio  di una generazione che perduta la ribellione degli anni settanta, si prepara alla perdita di ogni ideologia. L’assenza di ogni speranza, nella devastanze certezza che tutto sfugge e si dilegua in un sogno, il desiderio non diviene mai realtà.

 Ian Curtis influenza “Faith”, il terzo Lp dei Cure, nei suoi brani lunghi, solenni: il suono delle tastiere e del basso a sei corde  spesso affiancano o sostituiscono la chitarra. Nel singolo “Primary” due bassi si rincorrono energici e lineari, nella title track i due strumenti dialogano in una pacata dissertazione che si spezza nel finale, in uno stillicidio disperato commentato dalla voce: “There’s nothing left but faith”, una speranza irrazionale lascia il posto alle idee, alle speranze defunte.

“All Cats Are Grey” e “The Funeral Party” sono la caduta in un abisso contemplativo, le tipiche convenzioni compositive sono saltate, dopo una lunga introduzione, vi è una funebre chiusura che come una litania pagana rimembra quell’innocenza distrutta, nella consapevolezza, certezza della morte.Memories of children’s dreams lie lifeless fading lifeless hand in hand with fear and shadows crying at the funeral part“.

Un breve ritorno al formato 45 giri porta il brano “Charlotte Sometimes”, ballabile e romantico: il testo  piuttosto criptico, fa riferimento ad un romanzo per bambini, dal titolo omonimo, della scrittrice britannica Penelope Farmer. Il romanzo del 1969 è ambientato nel 1918 e narra la storia di Charlotte che, dopo essere entrata in collegio, si trova improvvisamente sbalzata indietro nel tempo di 40 anni.

Il successivo è “Pornography”. Ascoltandolo si ha la sensazione di osservare da vicino pinnacoli, doccioni e garguglie di una cattedrale gotica: vertiginose altezze dal fondo di un abisso, stretti in una camicia di forza, in preda a deliri e visioni oniriche che mutano e si amplificano.  Minimalismo amplificato, che scolpisce in maniera prepotente le atmosfere drammatiche dei testi, scritti da Robert Smith guardando alla psicosi come a un orizzonte non troppo lontano.

Le ritmiche del basso e della batteria divengono tribali, mentre la chitarra incanta con riff ipnotici: “One Hundred Years”, “Doesn’t matter if we all die” raggelante martellante in un crescendo di riff claustrofobici , “The Figurehead” solenne e lirica, “Siamese Twins” si trascina in  un riff circolare, lento e inesorabile, nel grido finale “is it always like this ?” . La title track è un incubo figlio di “Atrocity Exhibition” dei Joy Division e di “Empty Spaces” dei Pink Floyd.

I testi riportano l’ interesse di Robert Smith per l’universo della malattia mentale: un empatia crescente con l’alienazione, per il mondo, per gli altri componenti della band. Come Ian Curtis – che studiò l’epilessia prima di essere colpito da quel male – il leader dei Cure viveva sull’orlo del baratro per lo stress, la droga e i rapporti nella band che si stavano deteriorando. Un giorno si sarebbe trovato a cantare dinnanzi ad un muro: il muro contro cui sbatteva la testa.

In Pornography il tema della caduta da uno stato di innocenza primigenio viene portato alle estreme conseguenze, epitaffio definitivo, in un mondo fatto di degradazione e corruzione, il tempo, il sesso, sono soltanto i viatici di una morte che corre di pari passo alla vita.

Ancora oggi Pornography rimane un disco di un’intensità irraggiungibile.

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