#dilloinitaliano: la petizione per rivalutare la lingua italiana

I termini in lingua italiana ci sono eccome: allora, ci si chiede, perché utilizzare sempre l'alternativa esterofila? I maggiori esempi di questa tendenza sono legati alla politica, basti pensare ai nomi delle riforme, come Job Act

#dilloinitaliano: la petizione per rivalutare la lingua italiana

E’ diretta ai Membri del Consiglio Direttivo Aldo Menichetti, Massimo Fanfani, Vittorio Coletti, Luca Serianni, ai Presidenti Onorari Accademia della Crusca Nicoletta Maraschio e Francesco Sabatini ed al Presidente dell’Accademia della Crusca Claudio Marazzini, la petizione promossa da Annamaria Testa, pubblicitaria italiana, al fine di rilanciare la lingua italiana, ma è aperta, ovviamente, a tutti gli italiani che oggigiorno utilizzano termini in inglese per risultare di tendenza e non restare indietro, per sentirsi più internazionali dimenticando, però, di essere i “portatori sani” di una lingua antichissima e decisamente articolata, con un vocabolario talmente ricco da non necessitare “intrusioni” da altre lingue. 

La petizione nasce, quindi, per invitare il governo italiano, le amministrazioni pubbliche, i media, le imprese, insomma un po’ tutti, a parlare più in italiano e meno in altre lingue.

Il messaggio che Annamaria Testa, con la sua petizione, intende lanciare non è quello di eliminare del tutto le contaminazioni linguistiche dal nostro lessico poiché è pur vero che determinate parole (come computer, ad esempio) non si possono tradurre e non avrebbe neanche senso farlo.Ha invece senso che ci sforziamo di non sprecare il patrimonio di cultura, di storia, di bellezza, di idee e di parole che, nella nostra lingua, c’è già”, scrive nel testo della petizione rivolgendosi in particolar modo a chi lavora nelle istituzioni e ricopre delle cariche pubbliche,Ovviamente, ciascuno è libero di usare tutte le parole che meglio crede, con l’unico limite del rispetto e della decenza. Tuttavia, e non per obbligo ma per consapevolezza, parlando italiano potremmo tutti interrogarci sulle parole che usiamo. A maggior ragione potrebbe farlo chi ha ruoli pubblici e responsabilità più grandi”.

Il mondo della politica, infatti, si appropria facilmente e di frequente dell’inglese per etichettare delle riforme, come il Job Act, quando invece basterebbe dirlo in italiano, rispettando le nostre origini e la nostra lingua. “Perché, per esempio, dire “form” quando si può dire “modulo”, “jobs act” quando si può dire “legge sul lavoro”, “market share” quando si può dire “quota di mercato”?”, si interroga Annamaria Testa, tra l’altro operante nel settore della comunicazione.

All’Accademia della Crusca, la petizione chiede di farsi portavoce e autorevole testimone di questa istanza presso il Governo, le amministrazioni pubbliche, i media e le imprese ricordando le buone ragioni alla base. I termini in italiano ci sono: perché non usarli?

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