Apple gli nega il diritto a conoscere gli ultimi tre mesi di suo figlio

Oltre all'episodio di San Bernardino, in California, che sta mettendo contro FBI ed Apple, vi è anche una triste vicenda italiana a far riflettere sulla necessità di un nuovo equilibrio tra l'esigenza a conoscere e quella a veder tutelata la propria privacy.

Apple gli nega il diritto a conoscere gli ultimi tre mesi di suo figlio

Negli Stati Uniti, la controversia tra FBI ed Apple in merito allo sblocco dell’iPhone coinvolto nella strage di San Bernardino sta portando alla luce l’esigenza di trovare un nuovo e rinnovato equilibrio tra la necessità, giusta, di alcuni di sapere ed il desiderio, legittimo, di altri a voler tenere segreto il contenuto del proprio device.

Anche una toccante vicenda italiana porta a riflettere su quest’argomento: è una storia che viene da Foligno e riguarda un amareggiato padre che non può accedere all’iPhone del suo compianto figlioletto perché sprovvisto del relativo PIN…

A raccontare la storia in questione, nel corso di un’intervista a Repubblica, è lo stesso Leonardo Fabbretti – 56enne architetto di Foligno – il quale spiega di non poter accedere all’iPhone del figlio Dama, adottato dall’Etiopia nel 2007 e morto l’anno scorso in seguito ad una lunga malattia, perché sprovvisto del PIN a quattro cifre necessario a riattivarlo.

Sia chiaro: Leonardo non intende violare in alcun modo la pur legittima privacy del figlio. Difatti era stato quest’ultimo a concedergli l’accesso e l’uso del suo iPhone 6 tramite l’impronta digitale: in questo modo il Fabbretti, negli ultimi 3 mesi di vita di Dama, aveva potuto consultare il backup su iCloud dello smartphone in questione ed accedere ai vecchi contenuti amati e condivisi da suo figlio. Qualche giorno dopo la scomparsa di Dama, però, complice lo sconforto ed il comprensibile dolore, Leonardo aveva lasciato un po’ da parte lo smartphone e, quand’è stato il momento di riaccenderlo, ha scoperto di non avere il codice PIN di accesso necessario: tutte le date, tutte le ricorrenze che lui ricordava fossero state usate da Dama come “password”, non funzionavano. Evidentemente il ragazzo, come tanti suoi coetanei, era solito cambiare il proprio log-in numerico.

Risultato? Il device, dopo qualche tentativo andato a vuoto, si è addirittura disattivato e, nel caso del moderno iPhone, non v’è mica il PUK con il quale poter recuperare l’accesso ai dati, foto e messaggi, scambiati negli ultimi 3 mesi da suo figlio. Serve proprio quel dannato codice.

A tal proposito Leonardo, munito di scontrino, ha anche chiamato il call center di Apple spiegando il problema ma gli operatori, dopo avergli fatto le condoglianze, si sono dimostrati irremovibili e refrattari allo sblocco del device. Lui, allora, è ricorso a programmi hacker (recuperando solo la rubrica del telefono), ad amici ingegneri smanettoni, ad un negozio d’informatica (gli hanno spiegato che per riaccendere il device occorreva resettarlo, perdendo però i dati ai quali era interessato): come extrema ratio, Leonardo s’è rivolto ad un team di avvocati che, dapprima gli ha lasciato qualche speranza (c’erano gli estremi per la causa), poi non ha più battuto colpo tanto che sono ormai 5 mesi che il papà di Dama attende di poter rientrare in possesso degli ultimi attimi di vita del suo bambino.

Certo, conclude Leonardo con un amaro sfogo, anche lui segue la cronaca e sa che sarà ben difficile riuscire ad averla vinta (anche se non demorderà mai), tuttavia qual è la sua alternativa? Arrendersi e non poter mai conoscere le ultime riflessioni, gli ultimi momenti felici, le ultime conversazioni del suo ragazzino? Soprattutto, cosa accadrebbe – si chiede Leonardo – nel caso un iPhone custodisse la password per bloccare una bomba atomica piazzata a Roma?

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