Cambiare di meno i vestiti contribuirà a salvare l’ambiente

Le industrie tessili occupano il secondo posto tra le attività più inquinanti esercitate dall’uomo. L’utilizzo “usa e getta” dei vestiti non può che produrre una montagna di rifiuti che nuoce all’ambiente.

Cambiare di meno i vestiti contribuirà a salvare l’ambiente

Solo qualche decennio fa toppe e rammendi erano la normale consuetudine dell’abbigliamento quotidiano. Oggi il necessario adeguamento alle nuove mode e il primo cenno di cedimento dei tessuti comporta inevitabilmente la prematura rottamazione dei nostri capi di abbigliamento. A quel punto i vestiti finiscono immancabilmente nel cestino.

Tutto ciò ha evidentemente un costo a cui aggiungere anche un altro aspetto che spesso viene sottovalutato e che risponde al nome di impatto ambientale. Spesso non ci rendiamo conto di quanto possano inquinare le aziende dedite alla produzione dei capi di vestiario, eppure risultano seconde solo alle industrie petrolifere. Possiamo quindi dedurre che produrre e dismettere gli indumenti rappresentano attività di per sé altamente nocive per l’ambiente.

vestiti-rifiuti-inquinamento

Ma per quale ragione negli ultimi anni si sarebbe notevolmente ridotta la vita media di un comune capo di abbigliamento? Stando ad uno studio condotto da McKinsey, tra il 1995 e il 2014 il prezzo degli indumenti sarebbe aumentato molto più lentamente rispetto a tutti gli altri beni di consumo. Il maggior divario si sarebbe registrato nel Regno Unito. Proprio qui nell’arco di tempo oggetto di ricerca, il prezzo medio dei beni di consumo sarebbe aumentato del 49% a fronte della contrazione del 53% del vestiario. In altre parole tra le due categorie si sarebbe registrata una tendenza pressochè divergente.

La stessa Greenpeace Germania non ha mancato di ricordare come tra il 2000 e il 2014 la produzione di abiti sia raddoppiata. Se poi si analizza la situazione nostrana, le stime della rete Mercatino segnalano circa 2,2 milioni di abiti di seconda mano venduti annualmente nei loro punti vendita, a fronte di oltre 70 milioni buttati nel cestino.

Per Giuseppe Ungherese di Greenpeace, “il riciclo non è una soluzione. I mercatini sono saturi e la sfida tecnologica per riciclare al 100% le fibre non è ancora stata vinta. Le aziende dell’abbigliamento devono ripensare il modello usa e getta e produrre capi che durano”. Non è quindi un caso che lo stilista inglese Tom Cridland voglia produrre capi che possano durare anche 30 anni.

Il danno provocato dalle industrie tessili è visibile anche dallo spazio. Un esempio è il lago d’Aral, in Kazakistan, la cui superficie si è ridotta di circa il 90% negli ultimi 50 anni. La colpa è imputabile alla monocoltura del cotone che ha deviato gli affluenti che alimentavano il lago. A tal fine è sufficiente pensare che per produrre un solo paio di jeans possono servire anche 11.000 litri d’acqua.

Al giorno d’oggi il cotone è impiegato in circa il 40% degli indumenti. Le piantagioni coprono il 3% della terra coltivata, ma assorbono il 10% dei pesticidi e il 24% degli insetticidi utilizzati a livello globale in agricoltura.

Sembra quindi chiara la necessità di limitare il cambio forsennato del guardaroba. I consumatori dovrebbero agire con maggior consapevolezza, mentre le industrie dovrebbero adottare standard di produzione più sostenibili.

Continua a leggere su Fidelity News